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NELL’80° ANNIVERSARIO DELLA “RESA INCONDIZIONATA” DELL’ITALIA AGLI ANGLO-AMERICANI E LE SUE TRAGICHE CONSEGUENZE


Francesco Mattesini
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NELL’80° ANNIVERSARIO DELLA “RESA INCONDIZIONATA”  DELL’ITALIA AGLI ANGLO-AMERICANI E LE SUE TRAGICHE CONSEGUENZE

 

LA REGIA MARINA DURANTE LA COBELLIGERANZA

NELLA CAMPGNA D’ITALIA

Settembre 1943 – Aprile 1945

 

         Sulla richiesta di armistizio avanzata alla metà di agosto 1943 dal Governo italiano agli anglo-americani, e sulle sue negative conseguenze, il maresciallo Harold Alexander, è stato molto critico nella sua relazione sulla campagna d’Italia, in cui  fu il Comandante delle Forze Alleate.

         Dopo aver ricordato che il Regio Esercito “aveva ancora in campo grandi armate”, e vi fossero nella penisola “sufficienti forze tedesche per sostenerle”, fece la seguente spietata analisi, che in parte rispecchiava correttamente quella che era stata l’impostazione di pensiero del Re e dei massimi membri del Governo e militari italiani nel far condurre al generale Giuseppe Castellano, con i maggiori possibili vantaggi, le discussioni dell’arnistizio, firmato a Cassibile il pomeriggio del 3 settembre 1943, ed entrato in vigore alle 18.30 dell’8 settembre:[1]

 

         Il fatto vero è che il Governo Italiano non decise di capitolare perché si riconobbe incapace di opporre ulteriore resistenza, ne a causa di un qualsiasi mutamento sentimentale e di convinzione intellettuale della giustizia della causa Alleata e Democratica; esso decise, come i governanti italiani avevano deciso in passato, che era giunto il momento di “correre in aiuto dei vincitori [il grassetto è nostro].

         Fu soprattutto una decisione dello Stato Maggiore Generale. In base a freddo calcolo, ispirato da quel “sacro egoismo [in italiano] raccomandato da Salandra nel 1914, le alte autorità militari avevano deciso che le fortune della guerra si erano finalmente rivolte contro l’Asse. Un calcolo simile, errato come si era dimostrato poi, le aveva fatte entrare in guerra nel giugno del 1940. Il momento era stato allora scelto bene, esse sperarono anche che, mutando bandiera a questo stato di cose, avrebbero avuto abbastanza da combattere per giustificare, alla fine della guerra, il diritto ad un posto tra i vincitori alleati. Ciò avrebbe comportato di sacrificare per il momento le loro truppe dislocate nei Balcani e nella Francia meridionale, ma speravano che le armate dislocate in Italia sarebbero rimaste ragionevolmente intatte. Il calcolo fu intelligente sotto un certo punto di vista, in quanto esse percepirono nettamente che la resistenza a fianco dei tedeschi poteva prolungarsi ancora per qualche tempo; ma ci fu un grave errore di calcolo di cui esse in seguito indubbiamente si rammaricarono amaramente e se non fosse stato per tale errore avrebbero forse rinviato la loro offerta di capitolazione. Mancando di un esatto apprezzamento delle difficoltà della guerra anfibia, e molto male informato dal suo Servizio Informazioni circa la potenza e le possibilità delle Forze Alleate dislocate nel teatro Mediterraneo, il Comando Supremo ritenne che noi fossimo capaci di sbarcare, in qualunque località  della costa italiana che avessimo scelto, forze tali che, con l’aiuto delle truppe italiane ivi dislocate, i tedeschi sarebbero stati o annientati o ricacciati in rotta dall’Italia. Il meno che tale Comando sperava era che  i  tedeschi sarebbero stati costretti  a  sgombrare tutta  l’Italia a sud degli Appennini

sino alla linea “Gotica”.[2]

         In tal caso l’autorità del Governo Reale avrebbe continuato ad esercitarsi sulla maggior parte del paese, la capitale sarebbe stata al sicuro, le Forze Armate Italiane sarebbero rimaste in potenza con il Comando Supremo efficiente, e l’Italia sarebbe riuscita a prendere il suo posto tra le Nazioni Unite”.

 

         Purtroppo, come sappiamo, le cose si svolsero in maniera ben diversa, portando il Paese alla catastrofe militare e istituzionale.

         Il dramma della Marina italiana, nella fase nebulosa che precedette la dichiarazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, è stata profondamente sintetizzata in una minuta, senza intestazione o riferimento di protocollo, compilata subito dopo la guerra nell’ambito dell’Ufficio Storico, in cui è scritto:

 

         L’aggravarsi della situazione militare in conseguenza della perdita della Sicilia e della diretta constatazione di quello che era il potenziale bellico del nemico, non lasciava dubbi sull’esito del conflitto nei nostri riguardi e sulla necessità di chiedere un armistizio, ma sulle trattative che pure erano in corso veniva mantenuto il più stretto segreto. Esse erano condotte dal Maresciallo Badoglio a mezzo dello Stato Maggiore Generale e con l’intervento di qualche persona dello Stato Maggiore dell’Esercito. L’Aeronautica era completamente all’oscuro e così pure la Marina, malgrado qualche tentativo fatto dal Ministro De Courten che avrebbe voluto chiarire i suoi dubbi che qualche oscuro avvenimento stesse maturando e non voleva trovarsi impreparato di fronte agli avvenimenti. Ma soltanto il 6 settembre ([n realtà il 3] egli, insieme agli altri Ministri militari seppe sotto vincolo del segreto che l’armistizio era già stato firmato il 3 settembre.

         Sulla data della proclamazione non vi erano elementi sicuri ma la impressione (che un po’ alla volta  era diventata convinzione generale) era che non sarebbe avvenuta  prima  del  15 o  al  più  presto  il 12  settembre. Si  contava  quindi  su  un

periodo di tempo ritenuto sufficiente per prendere le disposizioni militari conseguenti alle clausole dell’armistizio, per prendere la risposta alle prevedibili reazioni tedesche e soprattutto a quella che era una elementare necessità.

         I Comandi Navali assorbiti integralmente dalle loro esigenze professionali e dai problemi sempre più assillanti che la guerra imponeva alla loro attenzione, non potevano soffermarsi a considerarne gli sviluppi politici e si soffermarono soltanto sullo sfondo del miglior modo di uscire con onore dalla tragedia che incombeva.

         I Comandi a terra erano in contatto con le Autorità dell’Esercito ma stante la non ben chiarita posizione gerarchica e disciplinare nei riguardi dei Comandi di Grande Unità nel cui territorio si trovavano non  erano sempre al corrente anche di quelle disposizioni segretissime che lo Stato Maggiore dell’Esercito aveva impartito per mettere in guardia i suoi Alti Comandi per prevenire ogni mossa tedesca intesa alla occupazione con la forza del nostro territorio e dei suoi organi militari, mossa che era da attendersi perché da varie fonti e da vari episodi mal dissimulati era trapelata la esigenza di un vero e proprio piano per la occupazione militare dell’Italia la cui fedeltà si sentiva venir meno.

         In ogni modo il giorno 6 stesso non appena avuta la notizia dell’avvenuta firma dell’armistizio fu convocata per l’indomani una riunione a Roma di tutti i Comandanti in Capo di Forze Navali e di Dipartimento e dei Comandanti di Forze navali distaccate. La riunione ebbe luogo presso Supermarina il pomeriggio del 7 settembre”.

 

         Che l’ammiraglio di squadra Raffaele de Courten, Ministro e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, fosse in qualche modo al corrente di trattative segrete italiane per trattare la pace, ed anche delle discussioni in corso per evitare la consegna della flotta agli Alleati, si desume chiaramente da quanto ha scritto l’allora Capo del Servizio Informazioni Segrete della Regia Marina, viceammiraglio Franco Maugeri. Egli, infatti, che alla fine di agosto del 1943 aveva preso contatti con gli anglo-americani tramite un proprio agente inviato a Lisbona, il capitano commissario Mario Vespa, ha sostenuto nel suo libro memorialistico di aver espresso il 3 settembre (giorno della firma dell’armistizio a Cassibile) alcune preoccupazioni personali a de Courten, prendendosi un severo rimprovero dal Ministro della Marina, che gli disse:[3]

 

         Sei andato troppo oltre. Se le cose vanno male quelli di Palazzo Chigi diranno che la colpa è della Marina. Le istruzioni che ho sino a questo momento sono che la Marina si deve opporre con tutte le sue forze ad un eventuale sbarco sulla penisola. Lascia al Ministero degli Esteri di occuparsi di tutta la faccenda”.

 

         Come si vede, de Courten applicava allora una politica di distacco, in attesa che gli eventi, di cui era certamente al corrente, maturassero negli ambienti del potere politico.

         Infatti, avendo la Commissione d’Inchiesta per la mancata difesa di Roma chiesto al generale Ambrosio se rispondeva a verità il fatto che l’ammiraglio de Courten era stato messo al corrente  delle trattative di armistizio soltanto “all’ultimo momento”, l’ex Capo di Stato Maggiore affermò, testualmente:[4]

 

         Il Capo di Stato Maggiore della Marina era in pari tempo ministro e, come tale sicuramente ha appreso, in qualche consiglio dei Ministri degli approcci in corso presso gli anglo-americani. Ma, indipendentemente da ciò, il Capo di Stato Maggiore della Marina seppe della questione nei rapporti serali verso la fine di agosto [il grassetto è nostro], e poi nella riunione presso il Capo del Governo del 3 settembre mattina.

 

         Lo stesso maresciallo Badoglio confermò praticamente questa versione, perché sostenne di aver riunito i tre ministri delle Forze Armate fin dalla mattina del 3 settembre per esporre la situazione creatasi e dare “loro l’ordine di senz’altro procedere alla diramazione delle istruzioni, in modo che tutti i comandi dipendenti fossero messi al corrente dei probabili prossimi avvenimenti e del modo di comportarsi”.[5]

         Naturalmente, dal momento che l’armistizio fu firmato dal generale Castellano soltanto nel pomeriggio di quel giorno 3, Badoglio non poteva dire allora che l’armistizio era stato siglato, ma soltanto che vi era una bozza di accordo che stava per entrare in vigore con gli alleati; fatto quest’ultimo confermato, ad ogni scanso di equivoci, dallo stesso ammiraglio de Courten nelle sue note compilate a Brindisi il 10 settembre 1943.

         In un secondo tempo, de Courten affrontò il problema dell’armistizio scrivendo sul n. 1 del periodico “Idea” del gennaio 1947:

 

         A prescindere da qualsiasi considerazione sul grado di partecipazione della Marina alle decisioni ed alle trattative riferentisi alla conclusione dell’armistizio, sta di fatto che questo, nella sua forma conosciuta poi come “armistizio breve”, fu negoziato e concluso in seguito ad una valutazione politica e militare della situazione generale della Nazione, da cui aveva l’autorità di farlo. L’ordine di applicare nella maniera più leale le clausole dell’armistizio venne impartito dal Capo Supremo delle Forze Armate. Esso fu trasmesso alla Marina, ed in prima linea alla sua parte più sostanziale costituita dalle forze navali di superficie e subacquee, con la piena consapevolezza di richiedere un gesto durissimo di dedizione al bene comune, ma con la coscienza di dover affrontare qualsiasi sacrificio pur di assicurare il bene della Patria”.

 

         Parole nobilissime, che però non danno il senso della situazione confusa in cui si verificò il passaggio verso l’armistizio.

         Infatti, una volta stabilito che i Ministri delle Forze Armate erano al corrente sulle trattative in corso con gli alleati e che la loro opposizione era all’epoca soprattutto di ordine morale, ossia  impostata  sull’interpretazione da dare all’accettazione delle dure “clausole” imposte dagli anglo-americani, che indubbiamente penalizzavano la Regia Marina più di ogni altra forza armata, occorre ribadire che anche negli ambienti navali si determinò una grave perdita di tempo per reagire alla nuova situazione creata dall’armistizio. Ciò anche  perché il Governo e i Capi militari erano impegnati in un’azione collettiva, tendente ad ottenere dagli Alleati condizioni più vantaggiose di quelle che essi avevano offerte.

         Quando la sera del 5 settembre l’ammiraglio de Courten ricevette dal generale Vittorio Ambrosio, Capo di Stato Maggiore Generale (Comando Supremo) il promemoria Dick, che stabiliva le modalità e le rotte da far seguire alle navi italiane per raggiungere i porti alleati, a Roma, non afferrando che quelle di Eisenhower erano disposizioni tassative, si cercò di patteggiare ancora sul concluso. Nello stesso tempo si cercava di non far comprendere ai tedeschi il cambio di rotta, richiedendo il concordato appoggio aereo alla flotta, con la motivazione che doveva uscire da La Spezia per affrontare il nemico.

         Agli anglo-americani fu invece richiesto, con il Promemoria del Comando Supremo portato da Castellano ad Eisenhower il 7 settembre, di cambiare la destinazione delle navi, proponendo di mandarle nei porti dell’Italia meridionale, mentre il grosso della Squadra da Battaglia si sarebbe dovuto trasferire a La Maddalena, ove sarebbe arrivato anche il Re, mentre la maggior parte degli aerei efficienti, il cui movimento era già stato disposto da Superaereo, il Comando operativo della Regia Aeronautica,  doveva portarsi nelle basi della Sardegna.

         Il Comandante in Capo delle Forze Armate alleate, chiedendo il pieno rispetto dei patti firmati da Castellano a nome di Badoglio, rifiutò le richieste avanzate dal Comando Supremo, che avrebbero indubbiamente fatto della Sardegna un territorio libero, al di fuori del controllo degli anglo-americani, con tutte le conseguenze di smobilitazione della flotta italiana, fissata dall’armistizio lungo fatto arrivare ad Ambrosio la sera del 5 settembre.

         Tale dura imposizione, arrivando il mattino dell’8 da un irritatissimo Eisenhower, generò a Roma, dopo molte speranze, un’ondata di panico, che si ripercosse in periferia. Si ebbero anche dure reazioni, in particolare quella dell’ammiraglio Bergamini che minacciò di affondare le sue navi per non consegnarle agli inglesi, e che fu convinto, a stento, prima dall’ammiraglio Sansonetti e poi dall’ammiraglio de Courten, a rispettare le clausole dell’armistizio, per non rendere le condizioni di pace più dure nei confronti dell’Italia.

         Dal momento che gli anglo-americani pretesero la smobilitazione di gran parte della flotta, non vi è quindi da meravigliarci se poi il Ministro della Marina, messo di fronte alle proprie responsabilità, abbia tentato di dissociarsi dagli errori del Governo, e soprattutto del Comando Supremo (che gestì nel modo più sconsolante tutta la questione di carattere militare); salvo poi ad assumere un atteggiamento di piena protesta quando fu messo di fronte al fatto compiuto.

         Nella confusa situazione verificatasi la sera dell’8 settembre e nelle prime ore del mattino del 9, deleterio risultato il ritardo con cui le Forze Navali da Battaglia ricevettero l’ordine di prendere il mare.

         Infatti, dopo che il generale Ambrosio ebbe discusso con i tre Ministri Militari sulle clausole dell’armistizio, che i generali  Antonio Sorice (dell’Esercito) e Renato Sandalli (dell’Aeronautica) e l’ammiraglio de Courten vedevano per la prima volta, nel clima di accese discussioni che ne seguì nulla fu fatto, in quel delicato momento, per abbreviare i tempi di partenza delle navi verso i porti degli Alleati, che avevano stabilito dovesse avvenire subito dopo il tramonto dell’8 settembre.

         Quando, poco prima della mezzanotte, de Courten ricevette dal Comando Supremo la copia di quell’importantissimo documento, il Ministro della Marina rispose “facendo presente che, data l’ora tarda non era possibile applicare integralmente ed immediatamente le clausole previste per la Marina: raggiungere cioè all’alba del giorno 9, con navigazione ad altissima velocità, punti prestabiliti”, fissati nel Promemoria Dick.[6]

         Nello stato di agitazione di quelle drammatiche ore, in cui accettando il suggerimento del generale Mario Roatta, Capo di Statoo Maggiore dell’Esercito, fu deciso di non difendere Roma e di trasferire il Re e il suo seguito a Pescara, il Capo di Stato Maggiore Generale “emanava direttive affinché non fosse compiuto nessun atto ostile contro i tedeschi” e addirittura si “opponeva alla proposta avanzata dal Capo Ufficio Telecomunicazioni [del Comando Supremo]  di interrompere le comunicazioni a filo con la Germania”, perché ciò poteva significare un aperto atto di ostilità.[7]

         Adeguandosi a questo clima di prudenza, anche l’ammiraglio de Courten non ritenne “opportuno mettere subito in funzione il Promemoria n. 1 del Comando Supremo” – che poi fu diramato soltanto alle ore 07.15 del 9 settembre – “per evitare iniziative ostili contro i tedeschi”. Pertanto si limitò a “confermare per radio a tutte le navi la cessazione delle ostilità”; a “dar ordine alle Forze Navali principali” dell’Alto Tirreno “di prendere il mare” e dirigere a La Maddalena; a “lanciare per radio in chiaro un proclama che servisse per orientare tutti i dipendenti”, ma senza “trasmettere le clausole dell’armistizio” che furono diramate per radio, con notevole, se non imperdonabile, ritardo, soltanto alle ore 12.30 del 9 settembre, dopo che erano state trasmesse “alcune disposizioni di carattere particolare”.[8]

         Purtroppo, a contribuire al ritardo nella partenza della Flotta influì l’iniziale rifiuto opposto dall’ammiraglio Bergamini a portare le sue navi nella zona di Bona, per consegnarle agli anglo-americani. Ciò determinò l’inopportuno cambiamento di rotta della Squadra Navale  da Battaglia a  La Maddalena, anche perché a Roma, con la missione del generale Francesco Rossi, Sottocapo di Stato Maggiore Generale mandato in volo a Biserta per convincere l’inflessibile Comando Alleato a ritardare la data dell’armistizio, permase la incrollabile speranza di ottenere dagli alleati almeno il permesso di fare approdare la flotta in un porto nazionale, ritenuto abbastanza sicuro.

         Ma un inaspettato colpo di mano tedesco in quella base della Sardegna, effettuato con forze quasi insignificanti, determinò gravi conseguenze, perché le navi, che ebbero l’ordine di invertire la rotta, furono sorprese a manovrare in pieno giorno a ponente dello Stretto di Bonifacio dagli aerei, tedeschi Do.217 del II. e III./KG.100, i cui attacchi con bombe radiocomandate PC.1400X determinarono l’affondamento della corazzata Roma e il danneggiamento dell’Italia (ex Littorio), mentre le bombe radiocomandate Hs.293 affondarono il cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi.

         In seguito a ciò, dirigendo la Squadra da Battaglia per Bona, si concluse nella più grande amarezza l’atto che gli alleati avevano sempre preteso e che i Capi della Regia Marina avevano tentato di evitare con tutti i mezzi: la consegna delle navi all’ancora nemico. Un dramma che lo storico britannico capitano Roskill ha descritto, nelle sue tragiche dimensioni, con le seguenti parole:[9]

 

         In tutti gli annali della storia militare possono esservi pochi drammatici eventi come la resa di una Marina da guerra nemica. Per i vincitori essa è il culmine dell’intero ciclo operativo in applicazione del potere marittimo, il raggiungimento di tutti gli scopi. Per i vinti essa significava, per la sua completezza, l’abbandono di tutte le loro ambizioni. Per la nazione britannica e specialmente per la Royal Navy il significato del dramma del 10 settembre 1943 fu accresciuto dal fatto che la flotta italiana incontrò le nostre forze nelle stesse acque, in cui, in tante guerre, e particolarmente dal 1940 al 1943, aveva lottato così strenuamente per il loro controllo”.

 

         Sull’importanza della consegna della flotta italiana agli alleati anche lo storico statunitense ammiraglio Morison fu molto esplicito, scrivendo:[10]

 

La Marina italiana fu, infatti, la sola branca delle forze armate che eseguì le condizioni di Armistizio. Badoglio, fu impotente a fare di più e l’Esercito e l’Aviazione italiana scomparvero semplicemente”.

 

         Nella ultima edizione del suo ultimo libro il comandante Marcantonio Bragadin ha trattato dell’importanza dell’attività della Marina italiana al servizio degli alleati, e dell’ingiusto trattamento riservatole al momento del trattato di pace. In particolare Bragadin ha scritto:[11]

 

         L’attività delle navi italiane fu preziosa per gli anglo-americani anche perché consentì alle loro flotte di trasferire molte unità in Atlantico e in Pacifico, dove le grandi operazioni di sbarco richiedevano la concentrazione della maggiore possibile quantità di forze navali. Le navi italiane, come sempre, assolsero i loro compiti  efficacemente, tenendo ben alto il prestigio della nostra Marina di fronte alle maggiori del mondo. Gli elogi e i riconoscimenti espressi dagli anglo-americani sono stati innumerevoli: a cominciare dai tanti pronunciati da Churchill durante i suoi discorsi ai Comuni, fino a quelli dei comandi di ogni rango nel Mediterraneo”.

 

         Tuttavia, “a dispetto dei tanti riconoscimenti espressi alla Marina italiana da parte delle alte autorità alleate (per l’ampiezza e l’efficacia della sua attività durante venti mesi di cobelligeranza)”, il trattamento riservato dalle potenze vincitrici risultò nell’immediato dopoguerra dei più malinconici ed umilianti.[12]

         La Marina italiana, che nei giorni dell’armistizio, oltre a lamentare la perdita della corazzata Roma e di altre unità, aveva dovuto abbandonare ai tedeschi ben trecentoventisette navi di ogni tipo, anche se in gran parte non poterono essere riutilizzate perché autoaffondate o sabotate dagli equipaggi, consegnando il grosso della flotta agli angloamericani pagò duramente anche l’illusione di ottenere condizioni di pace più favorevoli. Infatti, come sappiamo, l’armistizio, ratificato il 29 settembre 1943 a Malta, sulla corazzata Nelson, dal maresciallo Badoglio e dal generale Eisenhower, con norme ancora più dure di quelle presentate a Cassibile, pretese il disarmo e la smobilitazione delle navi più potenti per un lungo periodo, mentre il Comandante in Capo del Mediterraneo, ammiraglio Cunningham, affidò alle restanti unità leggere compiti più che altro di carattere sussidiario.[13]

 

***

 

Riguardo alle perdita della Roma, l’affondamento della corazzata, come disse l’ammiraglio Accorretti all’ammiraglio de Courten, poteva forse essere evitato se, invece di stare a discutere, in modo drammatico, tra il Ministro della Marina e il Comandante della Flotta, le navi fossero partire in orario per Bona, subito dopo il tramonto dell’8 settembre, rispettando gli accordi armistiziali. Ciò avrebbe comportato di effettuare, come pianificato dagli Alleati (promemoria Dick) la navigazione notturna senza troppi rischi fino al sud della Sardegna in modo da trovarsi dopo l’alba sotto la scorta degli aerei da caccia Alleati  al largo di Bona, e nel contempo di mantenersi lontano dagli aerei tedeschi concentrati sugli aeroporti della Francia meridionale. Invece, salpando dalla Spezia intorno alle 03.30 del 9 settembre, con un ritardo di ben sei - sette ore, e dirigendo la flotta sulla Maddalena come aveva richiesto con puntiglio l’ammiraglio Bergamini, fu offerta alla Luftwaffe la possibilità di avvistare per tempo con i ricognitori le navi italiane nelle ore del mattino, e poi di attaccarle nel pomeriggio, ad iniziare dalle ore 16.00, con i bombardieri Do.217 del 2° e 3° Gruppo del 100° Stormo Bombardamento (II. e III./KG.100) decollati dagli aeroporti della Provenza ed armate di bombe speciali, senza che le unità delle Forze Navali da Battaglia avessero potuto disporre di alcuna scorta aerea.

 

***

 

La perdita della Roma, e delle molte altre unità, in gran parte attaccate dai tedeschi mentre si trasferivano verso i porti degli Alleati, rappresentò soltanto una parte del disastro che nei giorni dell’armistizio si abbatté sulla Marina italiana. Come detto, ben 327 navi, tra cui la corazzata Conte di Cavour, 3 incrociatori, 9 cacciatorpediniere, 23 torpediniere, 6 corvette e 24 sommergibili, restarono nei porti sotto controllo tedesco. Di tali unità la maggior parte si auto-affondarono o furono sabotate dagli equipaggi, dal momento che non si trovavano in condizioni di prendere il mare. Tuttavia non mancarono navi che si consegnarono spontaneamente ai tedeschi, con lo scambio del saluto al momento della sostituzione degli equipaggi, come accadde per le sei siluranti della flottiglia dell’Egeo (cacciatorpediniere Crispi, Turbine e torpediniere San Martino, Calatafimi, Solferino e Castelfidardo) di base al Pireo e a Suda, che poterono essere subito impegnate, con il massimo rendimento, dalla Marina germanica per appoggiare gli sbarchi contro i possedimenti italiani del Dodecanneso.

Nel disastro generale, da parte italiana non mancarono gli atti di valore e lo spirito offensivo, ma furono tutti determinati da azioni individuali espresse su iniziativa di singoli comandanti. L’episodio più rappresentativo e concreto fu quello di Bastia, in cui si fece nuovamente onore il comandante della torpediniera Aliseo,  capitano di fregata Carlo Fecia di Cossato, che in Atlantico si era guadagnato l’importante onorificenza tedesca della Croce di Cavaliere (Ritterkreuz) per aver affondato, con il sommergibile Tazzoli, sedici navi mercantili per 86.545 tsl.

Il mattino del 9 settembre, mentre la flotta dell’ammiraglio Bergamini, dirigendo per la Maddalena, stava transitando a occidente della Corsica, l’Aliseo impegnò a cannonate sette unità tedesche che tentavano di uscire dal porto di Bastia, dove i tedeschi, che erano impegnati in aspri scontri con i reparti del Regio Esercito e della Regia Marina, avevano danneggiato e catturato la torpediniera Ardito. Dapprima, sostenuto a maggiore distanza dalla corvetta Cormorano, l’Aliseo affondò con i suoi due cannoni da 100 millimetri, i cacciasommergibili UJ-2203 (ex francese Austral) e UJ-2219 (ex belga Inuma). Quindi, appoggiata anche dal fuoco dalle batterie costiere, la torpediniera contribuì ad affondare, una dopo l’altra, le cinque motozattere F 366, 387, 459, 612 e 629, che appartenevano alla 4a Flottiglia tedesca.

         Altri episodi, in cui apparve vincente la determinazione con cui furono affrontati i combattimenti con i tedeschi, si ebbero a Bari e soprattutto a Piombino, ove i carri armati del 31° Reggimento del Regio Esercito riuscirono ad affondare la torpediniera tedesca TA-11, ex francese L’Iphigènie. Episodi del genere, condotti in modo più o meno fortunato, furono combattuti un po’ dovunque in quei giorni, nelle basi navali, nei depositi e in mare; ma generalmente i risultati non furono quelli sperati e non contribuirono ad evitare che i tedeschi si impossessassero di quasi tutti gli obiettivi della penisola e dei possedimenti italiani d’oltremare, né servirono per convincere gli anglo-americani a sfruttare adeguatamente le molto possibilità d’impiego prettamente bellico della Regia Marina.

In definitiva, come detto, la Regia Marina pagò duramente l’illusione di ottenere, consegnando la flotta agli Alleati, condizioni di pace più favorevoli, perché quelle condizioni erano preventivamente legate a quanto gli italiani avrebbero potuto fare per impedire agli anglo-americani di impantanarsi in una guerra di conquista del territorio italiano (strategicamente importante); guerra poi chiamata “di liberazione”, ma che oggi è ormai conosciuta come “guerra civile”, che secondo alcuni malinformati, in particolare politici (come Walter Veltroni e Silvio Berlusconi), sarebbe addirittura iniziata in Sicilia; dimenticando o facendo finta di ignorare che l’Esercito italiano combatteva per difendere l’isola. La verità è ben altra, poiché gli Alleati non intendevano allora combattere nella penisola per liberare gli italiani; ma come fecero capire agli stessi italiani durante i colloqui armistiziali, agli anglo-americani interessava guadagnare posizioni strategiche per esercitare il pieno controllo del Mediterraneo, di impossessarsi dei porti dell’Italia meridionale, in particolare di quello di Napoli, per farvi affluire truppe e rifornimenti, e di controllare la parte meridionale della penisola, dove esistevano i grandi aeroporti della Puglia (a Foggia in particolare), da dove intendevano condurre, da sud, la guerra aerea  strategica contro la Germania e nei Balcani, che poi realizzarono con la formidabile 15a Air Force statunitense.

Per raggiungere gli ambiziosi obiettivi del sud e Italia centrale, e soprattutto per realizzare lo sbarco a Salerno, impedire ai tedeschi di conquistare Roma, e per esercitare il controllo dell’Italia centrale fino ai rilievi degli Appennini settentrionali (da raggiungere al più tardi nel mese di dicembre 1943), impiegando forze limitate rinforzate da una ventina di  divisioni italiane, gli Alleati contavano molto sulla collaborazione delle Regie Forze Armate. Ne rimasero però delusi, perché dopo la diramazione dell’armistizio, la sera dell’8 novembre, non ricevettero da esse quasi nessun aiuto per raggiungere gli obiettivi che avevano programmato. Ragion per cui, nelle loro recriminazioni, determinate dall’aver dovuto combattere a lungo nella penisola italiana fino alla fine di aprile del 1945, impiegando, al prezzo di fortissime perdite, grandi quantità di forze terrestri, aeree e navali, contro un nemico fortemente motivato a resistere, i britannici e gli americani arrivarono a maledire il giorno in cui il generale Castellano si era presentato a Lisbona ai delegati del generale Eisenhower per trattare la resa. Questo fatto contribuì ad indispettire non soltanto il Comandante in Capo delle forze Alleate, ma soprattutto le diplomazie di Londra e di Washington, degli statunitensi in particolare che non mitigarono mai, nei confronti dell’Italia, la punizione della resa incondizionata pretesa fin dalla conferenza di Casablanca del gennaio 1943.

E’ bene ricordare che per gli Alleati l’Italia era considerata una nazione vinta che, per riscattarsi doveva trovare il modo “di guadagnarsi il biglietto di ritorno”. Era questo un argomento sul quale il Primo Ministro britannico si mostrava inflessibile, tanto che  il 9 settembre 1943, scrivendo a Roosevelt, di contare sulla “conversione dell’Italia in una forza attiva contro la Germania, aveva specificato: “Sebbene non possiamo riconoscere l’Italia come alleata nel pieno senso della parola, siamo stati concordi nel permetterle di pagarsi il biglietto lavorando, e che questo utile servizio contro il nemico verrà non solo aiutato, ma ricompensato. Ciò non fu permesso perché, purtroppo, l’8 settembre le Forze Armate italiane, disintegrandosi letteralmente, non fornirono agli Alleati l’aiuto richiesto. La speranza nutrita dal generale Eisenhower di un possibile urgente intervento dell’Esercito italiano contro i tedeschi non si concretò per l’inatteso sbandamento verificatosi nelle Forze Armate del Regno subito dopo la dichiarazione dell’armistizio. Il Comandante in Capo Alleato espresse allora tutto il suo malumore in una lettera del 13 settembre, inviata al generale Gorge C. Marsshall, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito statunitense, sostenendo:[14]

 

Gli italiani sono stati così deboli che abbiamo avuto poco o nessun pratico aiuto da loro … non vi è stato nulla nell’effetto prodotto che somigliasse a quanto era nel regno delle possibilità”.

 

Ne conseguì che l’armistizio, ratificato a Malta, a bordo della corazzata britannica Nelson, il 29 settembre 1943 dal maresciallo Pietro Badoglio, con condizioni ancora più dure di quelle fissate a Cassibile, pretese il disarmo e la smobilitazione di molte navi per un lungo periodo.

E questa triste e umiliante situazione, nonostante il 23 settembre 1943 fossero stati fissati a Taranto, tra gli ammiragli Raffaele de Courten e Andrew Browne Cunningham, alcuni accordi di collaborazione che sembrarono allora incoraggianti, poiché stabilivano fossero utilizzate “al più presto” le unità da guerra minori italiane per i trasporti alleati e nel lavoro di scorta ai convogli, che dalla rada di Augusta percorrevano le rotte per i porti di Napoli e Taranto, gli Alleati non concessero altro nel campo operativo mediterraneo. Particolarmente umiliante fu il trasporto, con l’impiego degli incrociatori, del sale dalla Sardegna sul continente; e alquanto discutibile quello del rimpatrio dei prigionieri dal nord Africa che, invece di utilizzare gli incrociatori con tutti i rischi di navigazione di guerra che ne derivavano, avrebbe potuto svolgersi con semplici navi mercantili, che gli Alleati avevano in gran parte requisito per impiegarle per le loro esigenze.

Inoltre, gli anglo-americani non permisero mai ad alcuna nave della Regia Marina di partecipare alle molte operazioni alleate di sbarco e di appoggio al fronte terrestre, come a Salerno, ad Anzio e all’Isola d’Elba, o a missioni di scorta ai grandi convogli degli Alleati che percorrevano il Mediterraneo, combattendo contro gli aerei e i sommergibili tedeschi. Pertanto, di fatto, gli anglo-americani relegarono le unità navali italiane che ritenevano necessarie soltanto a compiti sussidiari; ossia a fare i facchini, come più volte è stato scritto, per la causa degli Alleati, mentre le navi delle altre nazioni, comprese quelle polacche, greche e Iugoslave, di numero modesto, ma essendo considerate le vere alleate degli anglo-americani, avevano il privilegio di combattere nei fronti navali più caldi.[15]

Occorre anche dire che le maggiori distruzioni causate all’Italia si verificarono nei due anni successi all’armistizio. Ciò avvenne, soprattutto, per opera di coloro che sono stati considerati, spesso in modo ironico, i “liberatori”; ossia degli statunitensi, i cui bombardieri – oltre ad appoggiare il fronte terrestre dove praticamente, in molte zone, gli Alleati furono costretti a combattevano con i tedeschi metro per metro e casa per casa – si sforzarono, da par loro, a demolire città e interi paesi della penisola, non tralasciando, nelle incursioni in profondità, i porti, i nodi ferroviari e gli impianti industriali del centro e nord Italia. In questi attacchi restarono uccisi, secondo le fonti ufficiali italiane, 40.000 civili.

Considerando che il Governo italiano, come annunciò alla radio il maresciallo Badoglio, aveva chiesto l’armistizio per “risparmiare nuovi lutti alla nazione”, queste parole sembrano oggi qualcosa di tragicomico, visti i danni arrecati all’Italia dagli Alleati ed anche dai tedeschi, che durante le loro ritirate facevano saltare ponti, strade, edifici, ferrovie, e tutto ciò che poteva servire al nemico. A quest’opera di demolizione, ma ciò non vuole essere una critica, contribuirono poi anche i partigiani italiani, che nel corso delle numerose opere di sabotaggio, soprattutto nelle strade secondarie, non mancarono di far saltare anche piccoli ponti e viadotti e tutto ciò che potevano servire ai tedeschi durante le loro operazioni di rastrellamento. Per non parlare poi dei lutti causatiti nella guerra civile dagli attentati, dalle uccisioni, dalle rappresaglie, e poi dalle rese dei conti contro i vinti che si protrassero ben oltre il termine del conflitto. Si ritiene fossero state uccise almeno 25.000 persone, ritenute fasciste (che in parte non lo erano), assassinate, assieme a Benito Mussolini ai suoi più fedeli sostenitori, dalle Bande armate Comuniste.

Secondo quanto affermato dal feldmaresciallo Albert Kesselring, Comandante tedesco del fronte italiano, i soldati tedeschi uccisi dai partigiani sarebbero stati 13.000 e altrettanti i feriti. Purtroppo, trattandosi, i partigiani, secondo il diritto internazionale di franchi tiratori, non portando una lecita divisa e dai tedeschi definiti banditi e quindi passibili di morte, le rappresaglie sulla popolazione italiana furono tremende, e migliaia di innocenti furono uccisi

Il trattato di pace del 10 febbraio 1947, firmato a Parigi dal Ministro degli Esteri Carlo Sforza, non tenne assolutamente conto dei decantati meriti cobelligeranti e resistenziali dell’Italia, poiché, occorre dirlo, furono di natura particolarmente modesta, e gli italiani furono sempre considerati dagli Alleati come “nemici” che, lo ripetiamo, come riteneva Winston Churchil per avere condizioni di pace meno punitive dovevano “guadagnarsi il biglietto di ritorno”. Sebbene la guerra si svolgesse nel territorio nazionale, in cui combattevano nella causa degli Alleati eserciti di ben ventisette nazioni di ogni continente, soltanto nel dicembre del 1943 fu permesso ad modesto raggruppamento motorizzato con 5.000 uomini di impegnare i tedeschi sul fronte di Cassino, ma con scarso profitto e perdite elevate.

Poi, a partire dalla primavera-estate del 1944, con la partenza dal fronte italiano di sette Divisioni, tre americane e quattro coloniali francesi per sbarcarle nella Francia meridionale, e che occorreva rimpiazzare, furono costituiti e portati in linea cinque Gruppi da Combattimento italiani, dall’organico di una brigata (circa 9.000 uomini), che furono però inseriti, nelle divisioni britanniche e polacche, ed adottando addestramento, divise ed armamento britannico, che però non includeva artiglierie pesanti e carri armati, che erano impiegati dalla divisione Alleata di appartenenza, il cui generale comandante stabiliva quali fossero gli ordini di operazioni e gli incarichi a cui il comandante del Gruppo di Combattimento doveva attenersi. Quindi agli italiani non era concessa dagli Alleati alcuna possibilità di autonomia.[16]

Il trattato di pace dette poi alla Marina il colpo finale, costringendola a cedere molte navi alle nazioni vincitrici (Russia, Francia, Grecia, Iugoslavia e perfino alla Cina) e a smantellare tutti i sommergibili e, fatto forse ancora più doloroso per la Marina, a demolire anche le corazzate Italia e Vittorio Veneto, che erano state confinate dopo l’armistizio ai Laghi Amari del Canale di Suez, dove rimasero inutilizzabili per tutto il restante periodo della guerra.[17]

Una ben triste sorte per quella che era stata una Grande Marina.

 

                                                   

FRANCESCO MATTESINI

 

8 Settembre 2023


 

NOTE

[1] Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico, “Le armate  alleate in  Italia dal  3 settembre  1943 al 12 dicembre 1944”, traduzione dall’inglese, Supplement to The London Gazette del 6 giugno 1950.

[2] Il Comando Supremo si  rese  conto dell’errore di valutazione commesso soltanto parecchi giorni dopo l’arrivo a Brindisi, quando venne a conoscenza delle difficoltà riscontrate dagli anglo-americani nel campo dei trasporti marittimi, e della scarsità di divisioni assegnate all’invasione della penisola italiana. Commentando lo stato di crisi appena superato dalla 5a Armata statunitense nella zona di Salerno, l’Ufficio Operazioni del Comando Supremo, con la lettera n. 1898/OP del 9 ottobre 1943, comunicava al generale Ambrosio: “è molto probabile che se i tedeschi avessero potuto contare sul concorso attivo delle FF.AA. italiane l’operazione [“Avalanche”] si sarebbe risolta in un gravissimo insuccesso”. Ambrosio fu ancora più drastico, sostenendo: “I vantaggi agli alleati per la nostra dichiarazione di armistizio sono stati di per se stesso enormi. Se avessimo avuto le nostre divisioni fra Salerno e le Puglie, invece che a Roma, non sarebbero mai sbarcati” Cfr. Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico, Diario Storico del Comando Supremo, Allegati n. 320 e n.360, dell’ottobre 1943.

[3] Franco Maugeri: Ricordi di un marinaio, cit. p. 133-135.

[4] SMEUS, Commissione d’Inchiesta per la mancata difesa di Roma, Fascicolo 7, “Interrogatorio generale Ambrosio”; vedi anche G. Castellano: Roma Kaput, cit., p.141.

[5] ASMEUS, Commissione  d’Inchiesta per la  mancata  difesa di Roma, “Interrogatorio maresciallo Badoglio”.

[6] ASMEUS, Stato Maggiore Generale Ufficio Operazioni 20 settembre 1944, “Ordini emanati dalle Supreme Autorità Militari in relazione alla conclusione dell’Armistizio con le Nazioni Unite”, Difesa di Roma, Raccoglitore n. 2997/A, cartella n. 2.

[7] Ibidem.

[8] Ha riferito l’ammiraglio Luigi Sansonetti, Sottocapo di Stato Maggiore della Regia Maruina, al comandante Marcantonio Bragadin il 27 gennaio 1956: La partenza della Squadra è avvenuto con un certo ritardo rispetto a quanto si prevedeva a Roma e anche la navigazione è stata più lenta di quanto non si pensasse  e quindi l’arrivo nei pressi di Maddalena è avvenuto verso mezzogiorno anziché all’alba come si prevedeva. (Questo particolare ha una certa importanza in quanto più tardi gli Alleati a proposito dell’affondamento della ROMA, hanno affermato che se la partenza e la navigazione avvenivano come previsto, all’ora dell’attacco aereo la Squadra sarebbe già stata nella zona coperta dalla protezione aerea Alleata e quindi  le cose sarebbero andate diversamente). Cfr., AUSMM, Archivio Seg. XXV, Titolo E - Coll. F.

[9] S.W. Roskill: The War at Sea, Vol. III, Parte I, The offensive, Londra, HMSO, 1960, p. 168-169.

[10] S. E. Morison:  Sicily, Salerno, Anzio, Vol IX  della serie History of  U.S. naval operation in world war II, Little Brow and Company, Boston 1954. Traduzione italiana a cura dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, p. 378.

[11] Marcantonio Bragadin : Il dramma della Marina Italiana 1940-1945, Milano, Mondadori, 1982, p. 333.

[12] Ibidem, p. 333-334.

[13] Francesco Mattesini, La dichiarazione di guerra alla Germania. Come l’Italia arrivò, con gli angloamericani alla firma del trattato di Malta, che riguardava i termini del Lungo Armistizio, e come, su insistente richiesta degli angloamericani stessi, si arrivò alla dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943, RiStampa Edizioni, Santa Ruffina di Cittaducale (RI), 2022.

[14] ASMEUS, fondo Generale Castellano, b. 2238.

[15] In non migliori condizioni si trovarono l’Esercito e l’Aeronautica. La cobelligeranza era una formula per annacquare la modesta partecipazione italiana alla guerra contro i tedeschi, poiché la questione delle operazioni nella penisola italiana fu esclusivamente una questione degli Alleati. I sei gruppi da combattimento dell’Esercito (cinque dei quali impiegati in operazioni belliche) che ci permisero di costituire, armandoli ed equipaggiandoli, dovettero combattere inseriti nelle divisioni Alleate, tra cui quelle polacche, senza potersi rendere indipendenti. Lo stesso fu per le unità aeree, che dovettero operare, con velivoli di ripiego forniti dagli anglo americani (in particolare bombardieri Baltimore e caccia P 39 e Spitfire V), sul fronte balcanico, mentre le nazioni Alleate degli anglo-americani, ad esempio il Brasile e la Grecia, impiegavano in combattimento velivoli modernissimi, come il caccia P.47 e lo Spitfire IX.

[16] Riportato dal sito Wikipedia italiana: “Le potenze definite come "alleate ed associate", firmatarie del trattato [di pace con l’Italia] furono: l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l'Impero britannico (Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, India, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Unione del Sud Africa) gli Stati Uniti d'America, la Repubblica di Cina, la Francia, il Belgio, la Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia, il Brasile, la Cecoslovacchia, l'Etiopia, la Grecia, i Paesi Bassi, la Polonia, la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, la Repubblica Federativa Popolare di Iugoslavia. Con l'Etiopia, anch'essa controparte nella sottoscrizione del trattato di pace, l'Italia concludeva un ininterrotto stato di guerra iniziatosi nel 1935 e, implicitamente, ammetteva l'illegalità dell'annessione effettuata nel 1936. Il trattato sanciva anche la rinuncia dell'Italia all'Albania, pur non essendo quest'ultima citata tra "le potenze alleate ed associate". Sul confine orientale, venne sancita la cessione alla Jugoslavia di diversi territori che l'Italia aveva ottenuto in seguito al trattato di Rapallo nel 1920 e al trattato di Roma nel 1924 (misura contro la quale protestò Alcide De Gasperi [Presidente del Consiglio] durante il suo discorso alla conferenza). I rapporti tra l'Italia e il Regno d'Egitto, il cui stato di ostilità non era stato mai formalizzato da alcuna reciproca dichiarazione di guerra, erano già stati regolati con separato accordo, sottoscritto il 10 settembre 1946”.

[17] Per saperne di più consigliamo il libro di Francesco Mattesini, La Marina e l’8 Settembre, edito in due tomi dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, gennaio 2003. Vedi anche l’aggiornato libro dell’Autore:  8 Settembre 1943. Dall'armistizio al mito della difesa di Porta San Paolo, RiStampa Edizioni, Santa Ruffina di Cittaducale (RI),) Aprile 2021, pagine 528.

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Volevo contestare la insultanti e immotivate osservazioni di Alexander.

Siamo tutti d'accordo che nella vicenda dell'armistizio è stata gestita male, ma in sostanza cosa si sarebbe potuto fare di diverso?

Era chiaro che la guerra era persa per l'Italia e per la Germania, quindi il minore dei mali era cercare di uscirne al più presto a qualsiasi costo.

Continuare a combattere per un po' avrebbe solo spostato il problema.

Ridicolo il pentimento di Ambrosio (vedi nota 2) che dichiara che con il contributo italiano lo sbarco di Salerno sarebbe fallito.  Intanto gli alleati avevano deciso lo sbarco proprio perché le trattative per l'armistizio erano in corso e la firma era praticamente certa, poi anche prima dello sbarco in Sicilia lo Stato maggiore era ottimista, poi si è visto come è finita.

Una illusione pensare che l'Esercito italiano dopo tre anni di guerra a fianco dei tedeschi potesse cambiare fronte da un giorno all'altro. Non eravamo più al tempo delle compagnie di ventura o a Lipsia nel 1812 quando uno stato tedesco passò dai francesi agli alleati durante la battaglia. La disgregazione dell'Esercito con l'armistizio era inevitabile.

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Ambrosio è indifendibile, sapendo che l'armistizio era imminente è andato a Torino perché doveva fare trasloco. Roatta pare che fosse all'oscuro fino all'ultimo momento.

D'accordo che tutti fecero grandi errori, ma credi che se non li avessero fatti l'esercito italiano non si sarebbe sfasciato?

La situazione era impossibile. Si poteva almeno tentare di uscirne con dignità dicendo chiaramente ai tedeschi che l'Italia non poteva continuare la guerra.

Ultimamente in una intervista sul 25 luglio, Emilio Gentile sostiene che Mussolini era perfettamente al corrente dei complotti contro di lui e ha lasciato fare proprio perché voleva uscirne.  

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Dire chiaramente a Hitler che l'Italia voleva ritirarsi dal conflitto, lasciando sola la Germania, sarebbe stato un suicidio. I tedeschi avrebberoi attaccato prima di farlo l'8 settembre 1943, quando travolsero gli Italiani (oltre 100.000 uomini) con solo una divisione di paracadutisti; perché Kesselring, per non distruggere Roma entrandovi con i suoi carri armati, li fermò alla periferia settentrionale di Roma, all'Olgiata e  La Storta, sulla  via Cassia.

Vergognosa  é poi la fuga degli italiani a Porta San Paolo, dopo che i carristi del 4° Reggimento si erano sacrificati di fronte agli anticarro tedeschi, sulla via Ostienze e alla Passeggiata Archeologica.  Probabilmente chi va alle cerimonie nella commemorazione, come l'ultima, non é bene informato, o in mala fede.

Ho già riportato la Relazione del colonnello di Stato Maggiore del Comando Supremo Giovanni Nurra, in cui si afferma che mentre i soldati e qualche civile scappava, la popolazione della zona saccheggiava i mercati generali.

In precedenza, avanzando sull'ostienze, gli ufficiali tedeschi, con il loro comandante maggiore Driedrich August Freherr von der Heydte, che guidavano l'avanzata , dopo aver fatto arrendere il forte Ostiense e travolti gli italiani alla Montagnola , si fermarono ad una bottega, comprarono uva e la mangiarono prima di riprendere la marcia trionfale vero Porta San Paolo, distante circa 500 metri, per poi scavalcare la zona del Circo Massimo raggiungere poco dopo il Colosseo, dove i paracadutisti furono fermati dal sopraggiungere della Resa italiana ai tedeschi.

Il tutto é riportato nel mio libro, Francesco Mattesini, "8 Settembre 1943 - "Dall'Armistizio al mito della difesa di Porta San Paolo", pagine 528. Costo del volume 46,00 Euro. Rivolgendosi all'Editore ARCHOSi Silvano Mattesini, scontato al 50%.

 

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Sono riuscito a rintracciare, nel carteggio del generale Castellano, la copia originale, in lingua inglese, delle richieste agli italiani fatte dal generale Alexander , da me pubblicato nel giugno del 1993, e poi nel libro dell'Ufficio Storico "La Marina e l'8 settembre" del 2002, e ancora nel libro più recente del 2022: "Dall'armistizio dell'8 settembre al mito della difesa di Porta San Paolo". Il documento ha sciolto molti enigmi, rimasti fino ad allora (1993) piuttosto celati.[1]

 

                      “QUARTIER GENERALE DELLE FORZE ARMATE                                                                                  

                                                                                                           PROMEMORIA

                                                                                                          SEGRETISSIMO

                                                                                                          3 Settembre 1943

                                                                                                           Copia N. …

 

     1) Questa memoria preliminare elenca i punti per i quali è stato concordato che il Governo italiano farà tutto il possibile affinché vengano eseguiti prima della proclamazione dell’Armistizio tra le Forze Italiane e quelle Alleate, ed altri punti per i quali le azioni dovranno essere intraprese a seguito della proclamazione.

 

     2) Dall’ora in cui l’accordo armistiziale viene concluso e fino alla sua proclamazione:

a) Prendere tutte le possibili misure per salvaguardare i prigionieri di guerra alleati. Se le pressioni tedesche per prenderli in custodia dovessero diventare eccessive, dovrebbero se possibile essere rilasciati e soccorsi dalla popolazione.

     b) Non deve essere permesso ad alcuna nave da guerra italiana di cadere in mano tedesca. Debbono essere prese precauzioni per assicurare che tutte queste navi possano salpare per i porti designati dal Comandante in Capo del Mediterraneo, immediatamente alla dichiarazione dell’Armistizio. I sommergibili italiani non devono essere richiamati dal pattugliamento, in quanto ciò sarebbe una azione rivelatrice.

     c) Nessuna nave mercantile deve cadere in mano tedesca. Le navi dei porti del Nord, se possibile, dovrebbero dirigere a sud della linea Venezia – Livorno. Come ultima risorsa dovrebbero autoaffondarsi. Tutte le navi devono essere pronte a salpare per porti designati dal Comandante in Capo del Mediterraneo.

     d) Non deve essere permesso alle Forze tedesche di impossessarsi delle difese costiere italiane

     e) Devono essere predisposte idonee misure da attuare al momento opportuno perché le Forze italiane nei Balcani dirigano verso la costa in previsione di un loro rientro in Italia a cura delle Nazioni Unite.

 

         3) Per la difesa di Roma, alla quale dovrà partecipare una Divisione Aviotrasportata Alleata (probabilmente rinforzata) saranno completati i piani dettagliati e completata la preparazione preliminare, che comprenderà quanto segue:

     a) Dovrà essere garantita la disponibilità di tre aeroporti chiave vicino a Roma.

     b) Verranno prese misure preparatorie per assicurare che tutte le principali strade verso Roma possano essere catturate e bloccate nel minor tempo possibile.

     c) Verranno attuati gli ausili alla navigazione degli aerei trasporto truppe alleate concordati in precedenza.

     d) Dovranno essere prese tutte le misure necessarie ad assicurare che non verrà aperto il fuoco contraerei sui velivoli da trasporto truppe. Nei limiti del possibile neutralizzare le stazioni tedesche di radiolocalizzazione.

     e) Saranno prese disposizioni per i contatti tra il Comandante e lo Stato Maggiore, non appena la Divisione sarà a terra.

     f) Saranno prese disposizioni per l’approvvigionamento di tutti i rifornimenti necessari alla Divisione aerotrasportata, ad eccezione delle munizioni (cibo, trasporti e possibilmente assistenza medica).

     g) Saranno selezionati Gruppi da caccia delle Forze aeree italiane, per fornire assistenza nella difesa di Roma.

 

         4. Tenuto conto della necessità di telecomunicazioni a lungo raggio che non possono essere effettuate con i mezzi attualmente a disposizione, dovranno essere predisposti “appuntamenti”, in luoghi e tempi stabiliti dal Comandante in Capo del Mediterraneo a mezzo di segnali di riconoscimento. Messaggi scritti cifrati saranno scambiati a mano per l’impiego di corriere ufficiale.

 

         5. PROCLAMAZIONE:

     Alle18,30 ora di Roma (18,30 ora B) del giorno X (il giorno X sarà comunicato successivamente ma solo poche ore prima), subito dopo l’annuncio del Comandante in Capo delle Forze Alleate della conclusione di un armistizio, annuncio che comincerà alle 18,15 ora di Roma, il maresciallo Badoglio proclamerà l’armistizio con ogni possibile mezzo di pubblica informazione, via trasmissione radio, con comunicati alla stampa ed al corpo diplomatico e via telefono e telegrafo a tutti gli Enti governativi italiani e alle Forze Armate italiane. Nel proclama saranno inclusi gli ordini alle Forze Armate italiane e al popolo affinché cessino tutte le forme di resistenza alle Forze Armate delle Nazioni Unite. Nello stesso tempo saranno date istruzioni di resistere e di ostacolare in ogni modo le operazioni delle Forze tedesche finché queste rimarranno sul suolo italiano.

 

         6) MISURE POST-PROCLAMAZIONE:

     A partire dalle 18,30  Roma (18,30 ora B) del giorno X devono essere prese, nel più breve tempo possibile, le seguenti misure:

     a) Cessazione del lavoro di tutto il personale impegnato in operazioni che facilitino la manutenzione, il movimento e/o le operazioni delle Forze Armate tedesche.

     b) Per quanto più possibile, paralisi di tutti i movimenti in Italia delle Forze tedesche, specialmente nelle aree specificate al sottoparagrafo d), con i seguenti mezzi:

          1) Attacchi diretti al Quartier Generale e ai Posti di Comando delle organizzazioni militari tedesche. 

          2) Interruzione delle Comunicazioni tedesche (telefono e telegrafo, strade e ferrovie).

          3) Distruzione mediante sabotaggio o altri mezzi dei veicoli da trasporto motorizzati nemici.

     4) Imboscati ad auto dei Comandi, portaordini e trasporti in generale.

     c) Distruzione di aerei tedeschi, depositi di carburanti, lubrificanti, munizioni, ecc. specialmente nelle aree al sottoparagrafo d) ed attorno a Foggia.

     d)  1) Area di Roma

          a) Cattura di tutte le vie di comunicazione che passano per la periferia della città per prevenire che i tedeschi le occupino o muovano attraverso esse.

         b) Attacco diretto al Quartier Generale tedesco a Frascati.

         c) Difesa aerea della Città.

         2) Area di Spezia

         Massima copertura per la partenza della flotta.

3) Tra Roma e Napoli [Napoli = la comprensibile zona di sbarco – N.d.A.]

         Interferire quanto più possibile con i movimenti delle Divisioni tedesche dislocate tra Roma e Napoli.

         4) Napoli [come al 3) – N.d.A.]

         Prevenire la distruzione del porto e del naviglio e tenere l’area portuale se possibile.

         5) Taranto

         Impadronirsi del porto e tenerlo per l’ingresso delle Forze delle Nazioni Unite.

         6) Bari e Brindisi

         Come per Taranto, ma con priorità a Taranto.

         7) Calabria

         Isolare le forze tedesche che si trovano nella punta dell’Italia, bloccando le comunicazioni stradali e ferroviarie”.[2]

 

         Come si vede, oltre a ribadire la grande importanza che avevano, per i piani degli Alleati, i porti dell’Italia meridionale, in particolare quello di Napoli, e l’aeroporto di Foggia, ed il sostegno che sarebbe stato dato alla difesa di Roma con la divisione aviotrasportata statunitense rinforzata, si trattava di ottemperare a direttive essenziali assegnate alle Forze Armate italiane. Direttive che, vista la complessità delle richieste che si chiedevano agli italiani e sottovalutando, evidentemente, la reazione tedesca, c’è da chiedersi se gli anglo – americani, e lo stesso Castellano che partecipò ai dettagli finali, si fossero resi conto che il nuovo alleato difficilmente sarebbe stato in grado di aderirvi. E questo apparve subito evidente la sera del 5 settembre, dopo l’arrivo a Roma del maggiore Marchesi con i documenti consegnati dagli Alleati.

         Per riuscire nell’impresa, che avrebbe potuto cambiare il tragico corso degli eventi dell’8 settembre, occorreva che le Regie Forze Armate assumessero un deciso atteggiamento offensivo contro i tedeschi, da attuare immediatamente dopo l’annuncio dell’armistizio.

         Ma per portare a compimento una simile impresa, di difficilissima attuazione stanti le condizioni morali e materiali delle Forze Armate italiane, sarebbe occorso che gli ordini, specialmente quelli del Comando Supremo, fossero stati adeguati e diramati tempestivamente. Questo, purtroppo, non avvenne perché, come ha rilevato il generale Ettore Musco “il pensiero operativo dell’Alto Comando è stato condizionato, sovente dominato, da tre fattori: il timore di un colpo di mano germanico che è andato tramutandosi in uno stato ansioso dell’aggressione; l’ossessiva conversazione del segreto [un vecchio ed attuale difetto delle classi politico–militari italiane  ]; le incertezze, prima, e il travaglio, dopo, per le trattative armistiziali”.[3]   

         Di questi tre fattori altamente negativi, il più deleterio fu certamente quello della difesa ad oltranza del segreto. Il generale Ambrosio, non essendo certamente in grado di poter fare da solo tutto quanto era necessario nel campo operativo, si limitò a mantenere i contatti con Castellano e con Carboni, quest’ultimo nella sua qualità di Capo del SIM. Soltanto subito dopo la firma dell’armistizio egli si decise a mettere al corrente della situazione il generale Francesco Rossi, suo Sottocapo di Stato Maggiore Generale, che era rimasto all’oscuro di tutto assieme al Capo Ufficio Operazioni del Comando Supremo, generale Silvio Rossi, “nei cui riguardi” Ambrosio “probabilmente non doveva avere assoluta fiducia”.[4]

         In queste condizioni la compilazione e la diramazione degli ordini non poteva essere che tardiva, e ciò avvenne, come vedremo, verso mezzogiorno del 6 settembre, quando il Comando Supremo fece pervenire ai tre Capi di Stato Maggiore il “Promemoria n. 1”.


[1] Francesco Mattesini, L’armistizio dell’8 settembre 1943, Parte 1a,, Da Cassibile al Consiglio della Corona. La memoria del generale Alexander e i promemoria di Supermarina e del Comando Supremo, in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, giugno 1993, p. 38-39 e p. 97-99.

[2] Oltre a queste richieste di carattere militare, esiste un documento, rintracciato da Elena Aga Rossi nel P.R.O, oggi National Archives. (Alexander Papers, WO 214/36), in cui, all’atto dell’annunciazione dell’armistizio, era richiesto al Governo italiano di provvedere per la lettura di un radiomessaggio trasmesso da un membro del Governo da una stazione italiana. Era inoltre specificato che “Almeno un membro del governo” avrebbe dovuto “parlare alla radio”, e si sollecitava per la “trasmissione di informazioni dal Vaticano”. Cfr. Elena Aga Rossi, L’inganno reciproco, cit. p. 399.

[3] Ettore Musco, La verità sull’8 settembre, Milano, Garzanti, 1965, p. 70.

[4] Filippo Stefani, 8 Settembre 1943: Gli armistizi dell’Italia, cit. p. 100.

Edited by Francesco Mattesini
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In sintesi la richiesta degli alleati era che alla proclamazione dell'armistizio gli italiani attaccassero immediatamente i tedeschi. Ma il governo italiano non ha mai accettato di farlo e nell'armistizio non era previsto.

Mi interessava l'opinione di Mattesini su quanto avevo scritto in precedenza.

Il 9/9/2023 at 21:51, Giancarlo Castiglioni ha scritto:

Una illusione pensare che l'Esercito italiano dopo tre anni di guerra a fianco dei tedeschi potesse cambiare fronte da un giorno all'altro. Non eravamo più al tempo delle compagnie di ventura o a Lipsia nel 1812 quando uno stato tedesco passò dai francesi agli alleati durante la battaglia. La disgregazione dell'Esercito con l'armistizio era inevitabile.

 

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Aspettando il parere di Mattesini, ti do il mio. ;)

Dopo il 25 luglio era chiaro cosa stava per succedere, gli Stati Maggiori, gli Alti Ufficiali, erano abbastanza istruiti per capire cosa ci aspettava: avrebbero potuto prepararsi e preparare i propri uomini.

Ad esempio, pur nell'ovvia confusione del momento, il comandante Carlo Fecia di Cossato non si fece scrupolo di obbedire agli ordini del suo Re, cui era impegnato con il giuramento, ed ordinò di reagire sparando sulle navi tedesche che stavano compiendo atti di guerra contro le posizioni italiane. Lui è il caso più famoso, anche per il tragico esito, ma in tanti non esitarono e tentarono una resistenza. La maggior parte si squagliarono al sole. Alcuni, pochi per fortuna, mancarono alla parola data e tradirono il giuramento.

D'altra non ho dubbi che la maniera in cui uscimmo dalla guerra (era assolutamente necessario) fu la peggiore.

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Fin dall'inizio delle discussioni di Castellano a Lisbona, con il generale Bedel Smith e il generale Strong, fu chiaramente fatto comprendere che l'Italia doveva arrendersi agli Alleati senza nessuna concessione, ma che si sarebbe tenuto conto del contributo che le forze armate e il popolo italiano avessero fornito, collaborando in qualunque modo per scacciare i tedeschi dall'Italia, nell'agevolare gli anglo americani nelle operazioni di sbarco nella penisola, e nell'impedire ai tedeschi, mantenendo il controllo di Roma, di poter sfuggire ad un accerchiamento, da realizzare con gli sbarchi in Campania e nelle Puglie, per poi avanzare verso gli Appennini settentrionali.

Nel frattempo la Flotta italaiana, con quante più navi si trovavano in condizioni di navigare, doveva raggiungere i porti degli Alleati, che ne avrebbero esercitato il completo controllo, e quindi la possibilità di mantenerla e spartilla tra tutte le nazione che avevano combattuto contro l'Italia monarchica (evito sempre di chiamarla fascista). Fu quest'ultima questione,  e il fatto che al RE non venica concesso di trasferirsi in Sardegna, alla Maddalena, dove sarebbe stato protetto dalle navi della Flotta, che si persero ore e giorni in discussioni  con gli Alleati, facendoli irritare e a tutto svantaggio dell'organizzazione di una più efficiente difesa all'atteso attacco tedesco.

Da quì, come i tedeschi cominciartono a muove da Pratica di Mare e dalla zona Orvieto - Lago di Bolzena, che i responsabili italiani compresero che la difesa di Roma non avrebbe retto, e così fu deciso che il RE, la Corte e i principali capi Militari evacuassero la Capitale, per raggiungere Pescara, con  l'intenzione, poi realizzata, di trasfersi in Puglia, dove i tedeschi non  mantenevano il controllo dell'area Taranto - Brindisi, e formarvi un Governo libero (sic). In tal modo, non solo non fu dato agli Alleati il sostegno allo sbarco a Salerno, che per quindici giorni minacciò di fallire, ma con  la fuga del Re ebbe termine  anche ogni possibilità di difendere Roma.

Le operazioni a sud di Roma, dove i paracadutisti tedeschi, in meno di due giorni, eliminarono rapidamente ben tre divisioni italiane, schierate tra i Monti Albani e Fiumicino, furono un'occasione per cercare di salvare la caccia, facendo credere  agli Alleati, che non ci cascarono, che avevamo combattuto nei limiti delle possibilità contro i tedeschi.  Per tutto questo sfascio (di cui e da chiederci di cosa ci sia da ricordere in cerimonie pubbliche rievocative) e per non aver determinato alcun  sostegno alla causa degli anglo americani, questi ultimi se ne ricordarono sempre, ci trattarno come nemici, facchini e subordinati in ogni campo militare e pubblico (io me ne ricordo bene), e non considerando assolutamente l'opera dei partigiani (badogliano e comunisti) perché fu quasi ininfluente, ci punirono severamente al momento del trattato di pace.

Mi viene da piangere quando storici, giornalisti (Mieli, Palombelli  e compagni), e soprattutto uomini politici, sostengono che furono gli Alleati, in paticolare gli Americani (i quali erano un terzo dei britannici), ad essere venuti a liberarci. E tuttoggi i nostri politici, ruffianamente,  vanno a ringraziarli in ogni visita di stato. Gli americani non liberarono l'Italia ma la conquistarono assieme agli inglesi e alle numerose nazioni loro alleate; e con il trattato di pace ci portarno via tutto quello che potevano, lasciandoci praticamente in mutande.

Poi, una volta che ci ebbero puniti, ci aiutarono con il Piano Marchall; ma non dimentichiamo che lo stesso fecero gli americani con gli affamati popoli che erano stati i loro indomiti nemici, i tedeschi e i giapponesi.

Francesco Mattesini - 11 settembre 2023

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Dopo l'arrivo del generale Castellano a Lisbona, inviato dal Comando Supremo per discutere sugli alleati la resa dell'italia e le condizioni per combattere contro i tedeschi al fianco degli  anglo-americani in Italia, il 18 agosto, il  generale Eisenhower ricevette un telegramma di Winstonn Churchill che gli ordinava di mandare subito a Lisbona due ufficiali del suo Stato Maggiore, uno statunitense e l’altro britannico, per incontrare Castellano e presentargli i già concordati termini, in dodici punti, dell’”Armistizio corto”, riferendo che quelle norme, di “resa incondizionata dell’Italia non riguardavano le condizioni politiche, economiche  e finanziarie che saranno comunicate più tardi con altri mezzi”. Doveva però essere ben specificato all’ufficiale italiano che, sebbene “queste condizioni non riguardavano l’attiva assistenza dell’Italia nel combattere i tedeschi”  esse  potevano essere cambiate, “in favore dell’Italia”, sulla base dello sforzo che essa avrebbe fatto “per aiutare le Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra” [il grassetto è nostro]. Condizione fondamentale era poi quella che il Governo italiano doveva “proclamare l’armistizio immediatamente dopo che esso sarà annunciato dal generale Eisenhower”.[1]

 


[1] Winston Churchill, The secondo world war, vol. 5, Milano, Mondadori, 1948.

Edited by Francesco Mattesini
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Il 14/9/2023 at 12:11, Francesco Mattesini ha scritto:

Doveva però essere ben specificato all’ufficiale italiano che, sebbene “queste condizioni non riguardavano l’attiva assistenza dell’Italia nel combattere i tedeschi”  esse  potevano essere cambiate, “in favore dell’Italia”, sulla base dello sforzo che essa avrebbe fatto “per aiutare le Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra

Ma questo è quanto era scritto nel telegramma di Churchill, che sicuramente sarà stato detto, ma non scritto nelle condizioni di resa.

In precedenza avevo scritto: "In sintesi la richiesta degli alleati era che alla proclamazione dell'armistizio gli italiani attaccassero immediatamente i tedeschi. Ma il governo italiano non ha mai accettato di farlo e nell'armistizio non era previsto."

Quindi ritengo che quanto avevo scritto sia corretto. O mi sbaglio?

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Si. dovevano attaccare immediatamente i tedeschi nella zona del Gruppo di Armate C (otto Divisioni) del feldmaresciallo Kesselring (da Roma all'Italia meridionale))  iniziando le operazioni appena conclusa la trasmissione della resa italiana (ore 18.30), e prima dello sbarco degli Alleati a Salerno (notte dell'8-9 settembre) con tutti i mezzi e in ogni luogo. In particolare occorreva mantenere il possesso dell'Italia centro-meridionale, a sud degli Appennini, zona Livorno - Arezzo - Pesaro. A nord di questa linea vi erano le otto Divisioni, di cui due corazzate, del Gruppo di Armate B del feldmaresciallo Rommel, per c ui questa zona dell'Italia settentrionale era considerata, da italiani e Alleati, impossibile da difendere, tranne effettuare azioni di sabotaggio e contando sull'aiuto della popolazione "nel combattere i tedeschi", come riportava il Promemoria Alexander.

Le forze italiane disponevano nella penisola di quindici divisioni, dei cui due cortazzate nella zona di Roma.

Nulla fu fatto per aiutare gli Alleati! E non possiamo lamentarci se poi al trattato di pace gli anglo-americani se ne ricordarono.

Edited by Francesco Mattesini
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