Francesco Mattesini Posted February 18, 2019 Report Share Posted February 18, 2019 (edited) L’INCONCLUDENTE TIRO DELLE NAVI ITALIANE NELLO SCONTRO DI GAUDO DEL 28 MARZO 1941 Questo mio intervento e riportato dal mio libro “L’Operazione Gaudo e lo Scontro Notturno di Matapan”. Vediamo pertanto come fu giustificato, nelle testimonianze e nelle relazione italiane, l’inconcludente tiro della Vittorio Veneto a Gaudo. Questa nave da battaglia sparò, in 29 salve, 94 granate a palla, che si sommarono ai 535 proietti da 203 sparati dagli incrociatori della 3a Divisione, che dal Rapporto tecnico del Comando Squadra é ripartito come segue: Trieste 132 granate perforanti; Trento 204 granate perforanti e 10 granate dirompenti; Bolzano 189 granate perforanti. Sull’azione a fuoco della Vittorio Veneto l’ammiraglio Angelo Iachino scrisse nella sua relazione :[1] “Anche questo breve combattimento non ha portato a risultati concreti, ma ha molto giovato al morale degli ufficiali e dell’equipaggio; era questa infatti la prima importante azione di fuoco a cui prendevano parte le nostre moderne corazzate, e la rapida fuga del nemico è apparsa a tutti come un promettente auspicio”. Soddisfazione era poi espressa nelle “Considerazioni tecniche del materiale”, per il buon comportamento delle artiglierie, dal momento che non ci furono “avarie importanti, tanto che alla fine del tiro tutti i cannoni erano in grado di sparare regolarmente”. Tuttavia, come era già avvenuto nella fase tattica degli incrociatori della 3a Divisione Navale, anche nell’azione balistica della Vittorio Veneto fu particolarmente sentita la mancanza di uno strumenti adatto per agevolare la direzione del tiro, come quello rappresentato da un velivolo impegnato nell’osservazione aerea sul cielo delle navi nemiche. La Vittorio Veneto aveva disponibile un secondo “Ro. 43”, ma non poté impiegarlo al momento opportuno perché l’idrovolante non era stato rifornito della benzina. Questo fatto fu oggetto di rilievo da parte del Capo Servizio Aereo della Squadra Navale, che nella sua relazione fece il seguente commento: [2] “Il VITTORIO VENETO avrebbe avuto la possibilità di catapultare il secondo velivolo prima dell’azione balistica avvenuta contro gli incrociatori e durante la quale la direzione del tiro è stata resa difficoltosa dalla manovra e dalla nebbia effettuata dal nemico. Il catapultamento non è stato ordinato perché si ritenne sempre imminente la presa di contatto col nemico e si volle evitare il rifornimento di benzina e relativo pericolo d’incendio in caso di azione di fuoco. Tale preoccupazione, però, occorre che venga in un modo o nell’altro superata, perché l’occasione presentatasi il giorno 28 è stata di quelle che hanno consentito le maggiori difficoltà di iniziativa e, se non si è potuto decidere il rifornimento e catapultamento del 2° velivolo, sarà difficile che si possa fare in altre differenti situazioni. Il velivolo deve potersi rifornire in qualunque circostanza - meno che durante l’azione di fuoco vera e propria. Alla peggio, se questa si verifica improvvisa, si sospende il rifornimento (da farsi col velivolo già in barretta) e si catapulta senza equipaggio, ne più ne meno come si farebbe colla benzina che è tenuta in fusti che al momento critico si buttano in mare”. Infine, a titolo di confronto, e purtroppo di conferma dell’insufficienza del tiro italiano, occorre fare il seguente esempio. Come abbiamo detto, nei due scontri di Gaudo gli incrociatori della 3^ Divisione Navale e la Vittorio Veneto avevano consumato inutilmente cinquecentoquarantadue granate da 203 m/m e novantaquattro proietti da 381 m/m, sparando a distanza varianti tra i 22.000 e i 25.000 metri su otto bersagli che, data la portata più modesta delle loro artiglierie, non poterono rispondere al fuoco. Due mesi più tardi, il 24 maggio, due navi tedesche, la nuova corazzata Bismarck e il nuovo incrociatore pesante Prinz Eugen, furono impegnate in combattimento nello Stretto di Danimarca - tra la Groenlandia e l’Islanda - da due unità britanniche, l’anziano grande incrociatore da battaglia Hood e la moderna corazzata Prince of Wales. La Bismarck, sparando su entrambe le unità nemiche dalla distanza iniziale di 24.200 metri, per poi gradualmente scendere a 12.800 metri, un totale di 93 proietti da 380 m/m (uno in meno di quelli sparati a Gaudo dalla Vittorio Veneto), fece saltare in aria la Hood, centrandola alla terza salva con tre granate - quando la distanza era ancora notevole, di circa 20.000 metri - e ne piazzò a segno altre quattro sulla nuovissima Prince of Wales, vanto dell’industria cantieristica britannica, danneggiandola seriamente. Quest’ultima, pur essendo stata colpita anche da tre proietti da 203 m/m del Prinz Eugen, dimostrò di sapere incassare e nel contempo, al pari delle unità tedesche, di sapere a sua volta tirare bene, in quanto, pur non avendo i cannoni ancora a punto (aveva a bordo operai civili) e quindi in grado di sparare soltanto al sessanta per cento, alla sua ottava e nona salva colpì la Bismarck con tre granate da 356 m/m procurandole avarie non indifferenti, tra cui perdita di nafta che lasciava sul mare una scia visibilissima. Per concludere è necessario dare una spiegazione di carattere tecnico sulle “deficienze” del tiro italiano, rispetto a quello ben più efficace che si verificava nelle artiglierie delle altre marine. Lacuna di cui vi era stata consapevolezza fin dalla prima guerra mondiale quando, ha riferito l’ammiraglio Iachino, “era stato notato che le salve delle navi inglesi, francesi e austriache erano sempre assai fitte e avevano una dispersione inferiore alla nostra; cosicché quando una loro salva era centrata sul bersaglio questo veniva sicuramente colpito da almeno un proiettile”. Invece il tiro italiano, pur risultando “molto spesso a cavallo del bersaglio”, a causa della “grande dispersione dei colpi” non portava agli effetti desiderati. Era infatti “soltanto una questione di fortuna se i proiettili colpivano il segno”, dal momento che, per la eccessiva dispersione longitudinale “anche variabile di salva in salva in maniera irregolare e imprevedibile, la correzione usuale del tiro, in base all’osservazione dei punti di caduta, riusciva assai più difficile da noi che presso le altre marine”.[3] L’ammiraglio Iachino, ha puntualizzato che queste anomalie erano dovute principalmente ai parametri del munizionamento prodotto dall’industria nazionale, perché le “norme regolamentari per il collaudo delle munizioni erano”, in Italia “assai meno rigorose di quelle in uso nelle Marine estere”. Ragion per cui, pur disponendo di proietti perforanti e di spolette per nulla inferiori a quelle in uso nella Marina britannica, non corrispose invece alle aspettative la confezione delle cariche di lancio, ove, per quanto possa apparire un problema banale, non fu ottenuta identità tra di esse, relativamente al peso, alle dimensioni, alla distribu-zione dei vari elementi che le componevano. Il risultato fu di avere al tiro grandi dispersioni dei proietti di una stessa salva.[4] La causa, ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo che per un certo periodo di tempo nel 1942 comandò la IX Divisione Navale, costituita dalle corazzate Littorio, Vittorio Veneto e Roma: “era dovuta alla eccessiva tolleranza consentita dal peso deiproietti, per i quali si ammetteva un’approssimazione media di circa l’uno per cento, il che produceva una variazione di velocità iniziale dell’ordine di 3 metri per le velocità intorno ai 900 m/s, quali erano quelle da noi adottate. Per i 381 ciò corrispondeva alla distanza di 27.000 metri, ed uno scarto di gettata di 160 metri. Se per combinazione una salva partiva con qualche proietto di peso approssimativo per eccesso e qualche altro approssimato per difetto si aveva un’apertura di 320 metri. Ma se per caso una salva era composta di tutti proietti uguali, allora essa risultava molto raccolta. La grande apertura media delle salve facilitava certamente il cosiddetto centramento del tiro, ma la variabilità dell’apertura complicava il problema di mantenerlo centrato. Analoghe differenze tra il peso delle cariche producevano altre perturbazioni le quali, combinate con tutte le altre cause di dispersione, rendevano irregolare ed eccessivamente elevata l’apertura della salva intorno al suo valore medio”.[5] Inoltre, ritornando all’ammiraglio Iachino, pur essendo generalmente buone, le artiglierie italiane, che al pari del munizionamento erano prodotte tutte da Ditte nazionali, avevano “dispositivi meccanici ed elettromagnetici per il caricamento e l’accensione alquanto delicati e spesso facevano avaria durante il tiro prolungato”; ragion per cui le salve delle “navi risultavano dopo qualche tempo incomplete poiché una parte dei proietti rimaneva a bordo”. L’ammiraglio Iachino, dopo aver affermato che “l’imprecisione delle artiglierie era particolarmente notevole sugli incrociatori da 10.000 e sui C.t.”, ed in parte “anche nei cannoni da 320 mm. delle corazzate tipo CESARE e DUILIO”, ritenne invece che durante la guerra avessero dato “migliori risultati i cannoni da 381 mm.[6] Questa considerazione finale dell’ex Comandante in Capo della Squadra Navale, ha però trovato molte opposizioni fra i tecnici del tiro, tra cui, autorevolissima, quella dell’ammiraglio Emilio Brenta, all’epoca di Matapan Capo del Reparto Operazioni di Supermarina. Egli ha riportato in un suo articolo che la Marina aveva saputo “tecnicamente eliminare le dispersioni iniziali, maggiori o minori, dei suoi numerosissimi calibri, grossi medi e piccoli”, tanto che, “in alcuni casi fu addirittura necessario aumentare la dispersione perché con quelle troppo limitate era impossibile la direzione del tiro navale”. E concluse affermando che purtroppo non era stato invece possibile attuare tempestivamente la riduzione delle dispersioni per le corazzate tipo “Littorio”, perché esse “furono sfornate guerra durante, in una situazione perciò la meno adatta per compiere studi ed esperienze di quel genere”.[7] I cannoni da 381/50 modello 1934 delle corazzate tipo “Littorio”, sistemati in torri trinate dal peso di 1.600 tonnellate, in cui ogni cannone era separato dall’altro da paratie corazzate, in modo da avere locali autonomi, possedevano una elevazione massima di 35°. Essi erano in grado di sparare una salva per torre ogni quarantacinque secondi, scagliando proietti perforanti da 882 chili alla distanza massima di 42.800 metri, e con velocità iniziale del proietto di 870 metri al secondo. Sulle “Littorio”, la dotazione normale di proietti e di cariche di lancio, ripartiti fra i vari depositi, era la seguente: 495 proietti perforanti (a palla), 171 granate dirompenti, 4.320 elementi di carica conservati in cartocci. Al pari dei cannoni da 320 m/m delle corazzate classe “Cavour” e “Doria”, i 381 avevano “anima ricambiabile a freddo, il che - ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo - da una esatta idea dell’elevata perfezione costruttiva raggiunta dall’industria italiana in questo campo”. “Il solo difetto di tali complessi fu la dispersione ancora troppo grande, e ciò era dovuto in gran parte al fatto che “nei capitolati d’onere per la costruzione delle artiglierie non era accennato (o lo era di sfuggita) il requisito della precisione, mentre erano previsti cospicui premi per ogni metro di velocità iniziale in più di quello fissato, senza badare all’aumento delle dispersioni che questo incremento della velocità iniziale avrebbe prodotto”.[8] Difetti di dispersione, che pure furono ridotti abbassando la velocità iniziale da 930 a 900 m/s, davano anche i cannoni da 203/53 ed anima sfilabile degli incrociatori pesanti Zara e Bolzano, costruiti nel 1929. Essi tuttavia risultarono migliori - quanto ad elevazione (45°), al caricamento dei proietti e alla celerità di tiro - al Trieste e al Trento, i cui 203/50 con anima fissa, risalenti al 1924, risultavano molto lenti al tiro, poiché le torri binate avevano i due pezzi strettamente vincolati tra di loro, e determinavano dispersioni molto rilevanti. [9] Fermo restando la bontà del materiale e delle strumentazioni tecniche delle artiglierie da 381 m/m, possiamo concludere sostenendo che i maggiori difetti in esse riscontrati in fase di tiro di precisione erano da ricercare, oltre che sulle cariche di lancio, anche su la scelta dei parametri richiesti all’industria in fase di progetto e di costruzione del materiale. In definitiva le scelte degli organi tecnici della Regia Marina portarono a costruire artiglierie con elevato rapporto tra la lunghezza della canna e il suo calibro per renderla capace di sparare il più lontano possibile proietti di notevole peso, a cui era impressa alta velocità iniziale per mezzo di cariche di lancio di grande potenza propellente. Da ciò risultava una certa vibrazione della canna, e quindi un aumento della dispersione delle salve ed anche un maggiore logoramento dell’anima dei pezzi, che finivano per influenzare ancora più negativamente la precisione e la continuità del tiro, specialmente durante le fasi di fuoco condotte a ritmo accelerato e di lunga durata. *** Non essendo un tecnico di armi navali, e non avendo alcun bisogno di negarlo, né di darmi importanza per dimostrare di conoscere la materia, come viene fatto da qualcuno che non ha cognizione di quantio scrive ma soltanto superbia, in questo mio intervento mi sono limitato da dare fiducia ad ufficiali che sull’argomento conoscevano, più di ogni altro, le cause delle lacune delle artiglierie navali italiane. Sarei grato se sull’argomento si impostasse una seria discussione. FRANCESCO MATTESINI [1] AUSMM, Comando in Capo Squadra Navale, fascicolo 2, Considerazioni e conclusioni, fondo Scontri navali e operazioni di guerra, b. 27.[2] AUSMM, Ispettorato Aviazione, Promemoria per il Sottocapo di Stato Maggiore, fondo Scontri navali e operazioni di guerra, b. 28 bis.[3] Angelo Iachino, Tramonto di una grande Marina, Mondadori, Milano 1959, p. 68-70.[4] Ibidem.[5] Giuseppe Fioravanzo, L’organizzazione della Marina durante il conflitto, Volume I, USMM, Roma 1972, p. 105.[6] Angelo Iachino, Tramonto di una grande Marina, Mondadori, Milano 1959, p. 68-70.[7] Emilio Brenta, Circa due episodi navali “Pearl Harbor” “Gaudo Matapan”, in Rivista Aeronautica, febbraio 1948.[8] Giuseppe Fioravanzo, L’organizzazione della Marina durante il conflitto, Volume I,USMM, Roma 1972, p. 97.[9] Ibidem, p. 95-96. Edited February 19, 2019 by Luiz Giuseppe Garufi, sandokan, Conterosso and 2 others 5 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted February 19, 2019 Author Report Share Posted February 19, 2019 (edited) SAPEVAMO SPARARE ? A Punta Stilo, alle 15.15 del 9 luglio, alla distanza di 20.000 metri, i quattro incrociatori della Divisione “Abruzzi” (Abruzzi, Garibaldi, Di Giussano, Da Barbiano) aprirono il fuoco sui quattro incrociatori della 7a Divisione britannica (Orion, Neptune, Sydney e Liverpool), che risposero subito al fuoco. I due avversari non misero colpi a segno. Intervennero poi le corazzate. Il tiro della Warspitre cominciò alla distanza di 26.000 metri. Le distanze di tiro delle corazzate italiane furono telemetrate dalla Cesare in 26.400 metro e dalla Cavour, per evidente errore o per cattivo funzionamento del telemetro, addirittura a 30.500 metri. Ma poco dopo, alle 15.58, la Cesare fu colpita alla base del suo fumaiolo prodiero da un proietto da 381 della quinta salva della Warspite che, sparato alla distanza di 24.000 metri, mise fuori servizio quattro delle otto caldaie della nave da battaglia, costringendola a ridurre la velocità da 26 a 19 nodi, e poi a ritirarsi. Qualcuno a bordo delle navi italiane parlò di fuga. Nel successivo combattimento i sei incrociatori pesanti italiani della 2a Squadra (ammiraglio Paladini) combinarono ben poco, mentre invece il preciso tiro dei cannoni da 152 mm dell’incrociatore Orion, la nave comando dell’ammiraglio John Tovey (poi comandante della Home Fleet e affondatore della corazzata tedesca Bismarck), colpì con tre proiettili il Bolzano, che però poté allontanarsi a grande velocità, e con un altro proiettile il cacciatorpediniere Alfiero. Fino ad una nostra recente ricostruzione, i colpi che avevano raggiunto il Bolzano erano stati accreditati all’incrociatore Neptune e quello sull’Alfieri ad un colpo da 120 mm di un cacciatorpediniere. A Capo Teulada il tiro di poppa con i cannoni da 203, da parte dei sei incrociatori pesanti della 2a Squadra (ammiraglio Iachino) ebbe inizio contro cinque grosse unità similari britanniche, ma armate con cannoni da 152, contro i 203 delle unità italiane, alla distanza, con la prima salva del Pola, di 23.500 metri; ma poi il combattimento, con il nemico che inseguiva gagliardamente le navi italiane, si svolse, secondo le relazioni italiane, a distanze medie di 22.000 metri per gli incrociatori della 1a Divisione e di 21.500 metri per quelli della 3a Divisione. Nell’occasione fu colpito da due proietti da 203 l’incrociatore pesante britannico Berwick, mentre invece il cacciatorpediniere Lanciere fu arrestato dal tiro da 152 del Manchester, che lo colpì con tre proiettili da 152 mm, ma poté salvarsi. L’incrociatore da battaglia Renown, riuscito a grande velocità a portarsi a distanza utile, aprì il fuoco sul Trento alla distanza di 23.500 metri; e infine la corazzata Vittorio Veneto (dopo aver effettuato una grande volta tonda per permettere agli incrociatori di Iachino di diminuire le distanze) intervenne, sparando con la torre poppiera alla distanza di 28.500 metri e ultimò il tiro alla distanza di 32.500 metri. Nessun colpo a segno da ambo le parti. Dopo Capo Teulada fu confermato che la distanza per aprire il fuoco delle corazzate italiane doveva iniziare, se le condizioni atmosferiche lo avessero permesso, dalla distanza di 26.000 metri con i 320 e di 29.000 metri con i 381. Nello scontro di Gaudo, il 28 marzo 1941, la Vittorio Veneto sparò tra i 23.000 e i 26.000 metri; alla battaglia della 1a Sirte, il 17 dicembre 1941, i 381 della corazzata Littorio aprirono il fuoco a 32.000 metri e i 320 delle corazzate Duilio e Cesare a 28.000. Nel corso della battaglia della seconda Sirte, il 22 marzo 1942, con condizioni di visibilità pessime, rese ancora più difficili dalle cortine di fumo degli incrociatore e dei cacciatorpediniere britannici, la Littorio, nell’ultimo combattimento affrontato dalle navi da battaglia italiane, sparò a distanze alquanto ridotte, fino a contrastare l’ultimo attacco dei cacciatorpediniere nemici, alla distanza di circa 10.000 metri sparando anche con i medio calibri da 152 e anche con i cannoni contraerei da 90. In questa occasione fu danneggiato da un proiettile da 152 dell’incrociatore Bande Nere l’incrociatore Cleopatra e tre cacciatorpediniere (Havoch, Lively, Kingston) da colpi da 381 della Littorio caduti vicino allo scafo. Nessun colpo a segno! Infine, la notte del 6 agosto 1943 a nord di Ustica, gli incrociatori Garibaldi e Eugenio di Savoia, dioretti a bombardare Palermo, aprirono il fuoco con i 152 su due sagome apparse nell’oscurità, ritenute motosiluranti, mentre in realtà si trattava del piccolissimo cacciasommergibile statunitense SC-530, di appena 95 tonnellate che, salpato la sera del 5 da Palermo, scortava una piccola cisterna carica d’acqua, destinata alla popolazione e alla piccola guarnigione della vicina Isola Ustica. Il tiro, battente ed illuminante, fu aperto alla distanza di 3.000 metri e termino alla distanza del bersagliò di 1.200 metri dall’Eugenio, prima che i due l’incrociatori italiani voltassero la poppa per rientrare alla base, facendo abortire la missione contro Palermo e senza aver neppure colpito con le schegge quei due piccoli natanti. A titolo classico di paragone quando la Forza K (due incrociatori e due cacciatorpediniere) la sera del 9 novembre 1941 attaccò il convoglio “Duisburg” che era fortemente scortato, le navi britanniche aprirono il fuoco alla distanza di 6.000 metri e dopo sette minuti di tiro, avevano incendiato le sette navi mercantili del convoglio, che poi affondarono assieme a un cacciatorpediniere, mentre altri due cacciatorpediniere riportarono gravi danni. Questo si chiama sparare. Nella reazione della scorta, gli incrociatori Trieste e il Trento, aprendo il fuoco alla distanza di 10.000 metri per poi sospenderlo alla distanza di 17.000 metri, riuscirono a colpire con una scheggia il fischio del fumaiolo del cacciatorpediniere Lively, e questo è stato considerato da un certo “storico” come un successo italiano che i britannici ci avevano nascosto. Ha questo punto, anche per giustificare i motivi dei mancati successi, viene lecito chiedersi che non erano solo i cannoni a non colpivano, ma ritengo che mancasse anche il manico. Non sapevano sparare, e il motivo principale è che non veniva più fatto il normale addestramento. Naturalmente la colpa giustificatrice era la mancanza di nafta! Edited February 19, 2019 by Francesco Mattesini CARABINIERE 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted February 19, 2019 Author Report Share Posted February 19, 2019 (edited) Il vice ammiraglio H.K. Hewitt, comandante delle forze navali statunitensi nel Mediterraneo, ha riportato nel suo rapporto Action Report Western Naval Task Force. The Sicilian Campaign. Operation “Husky”, July- August, 1943: “La mattina del 6 agosto, durante l'oscurità, la SC 550, con una chiatta d'acqua, si trovava all'isola di Ustica quando fu attaccata da due cacciatorpediniere o piccoli incrociatori che si ritiravano ad alta velocità”. Nella storia ufficiale della Marina italiana, forse per la vergogna, la chiatta (lentissima) é riportata come piccola cisterna d’acqua. Anche io ci sono cascato leggendo sull’episodio il libro dell’ammiraglio Fioravanzo, Le azioni navali in Mediterraneo. Hewitt riporta che la SC 530 era invece la SC 550. Chi ha ragione? Edited February 19, 2019 by Francesco Mattesini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted February 19, 2019 Report Share Posted February 19, 2019 Da fold 3 war diaries: Messaggio da CTF 88 (Comando Task Force 88) a Com 8th Feet, Cincmed, CTF 86, C.G. (Commanding General) 7th Army12.25 06 agosto " CG 7th Army da passare al 12th AS Group 1st Air Defense Wing 242 Group Coastal Command per agire di conseguenza stopAlle 04.20 Sugar Charlie (SC) 503 Lieut Cone How. Johnson USNR che si trovava a 5 miglia ad est di Ustica con un water boat " [una cisterna per acqua del tipo YW, o se si preferisce una chiatta autopropulsa, self-propelled barge, come le TICINO date alla nostra marina nel dopoguerra, che portava acqua per la popolazione di Ustica arresasi il giorno precedente 5 agosto alle 13.20 ai DD PLUNKETT e GLEAVES con il mezzo da sbarco per la fanteria LCI-213, che aveva riportato a Palermo la piccola guarnigione di 99 militari italiani fatti prigionieri con 2 ufficiali ndt] "e' stato preso sotto il tiro da una distanza entro le 1.000 yarde da due navi con torri binate a poppa assomiglianti alla silhouette del DOUGAY TROUSIN [l'incrociatore leggero francese DUGUAY-TROUIN ndt]. stopDopo aver sparato un totale stimato in 50 colpi inclusi gli illuminanti e raffiche di mitragliatrici, si sono allontanate ad alta velocità verso nordest. stop nessuna perdita stop.Nella stessa zona avvistato il relitto di un idrovolante a galleggianti".CTG 80.2, CTG 89.1, scritto a mano stop Origine CTF 88 stop CARABINIERE 1 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted February 19, 2019 Author Report Share Posted February 19, 2019 (edited) Grazie Francesco Si trattava della SC 530, quindi no 503 che é uno sbaglio, come sbaglio é nel rapporto dell'ammiraglio Hewitt la 550. Riguardo al relitto dell'idrovolante si trattava di uno dei due Re.43 che EUGENIO e MONTECUCCOLI, al momento dell'azione di fuoco, avevano catapultato in mare, per non far incendiare la benzina con le vampe delle artiglierie. DUE VERSIONI AMERICANE: Si trattava, in realtà, del piccolo cacciasommergibili statunitense SC-530, di appena 95 tonnellate, armato con un cannone contraereo Bofors da 40 mm e due mitragliere da 20 mm Oerlikon. Era salpato la sera del 5 da Palermo, scortando una piccola chiatta carica d’acqua, destinata alla popolazione e alla piccola guarnigione della vicina Isola Ustica (in tutto circa 1.000 uomini tra cui, 200 carcerati, tra comuni e politici, con i loro secondini, e 100 soldati), che si era arresa il giorno avanti in condizioni igieniche e sanitarie precarie, essendo completamente a secco di acqua.[1] Secondo la versione statunitense, la SC 530, comandata dal tenente di vascello Ed Stafford aveva preso contatto radar con unità in avvicinamento ad alta velocità, poi riconosciuti a vista per incrociatori alla distanza di 1 miglio. Era stata poi presa a bersaglio, da distanza ravvicinata, dal tiro delle navi nemiche, supportato dalla luce di proiettili illuminanti. Ma poi, dopo aver sparato alcune salve, tutte cadute lunghe dal cacciasommergibile, i due incrociatori italiani si erano allontanati, e al comandante Stafford non resto che segnalare di essere stato attaccato da navi.[1] [1] T. Dorling (alias Taffrail), Il Mediterraneo occidentale 1942-1945 (traduzione dall’inglese a cura del C.C. Alberto Ceccacci, riveduta e commentata dall’Ammiraglio di SQ. G. Fioravanzo), USMM, Roma, 1952, p. 110-111; vedi anche Scambio notizie con Ammiragliato britannico. [1] Barbara Brooks Tomblin, Witth Utmist Spirit. Alled Naval Operations in the Mediterranean 1942-1945, The University Press of Kentucky, 2004, p. 221. Edited February 19, 2019 by Francesco Mattesini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted February 19, 2019 Report Share Posted February 19, 2019 In altra nota si parla di una "seized water barge", quindi una cisterna per acqua italiana catturata a Palermo e non una YW. I due destroyers e lo LCI in rientro a Palermo da Ustica incrociano SC 503 e la cisterna diretti all'isola. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted February 20, 2019 Author Report Share Posted February 20, 2019 Lo scriverei come segue: Secondo la versione statunitense, la SC 503, comandata dal tenente di vascello Cone How Johnson, trovandosi alle 04.20 del 6 agosto a 5 miglia a est di Ustica, aveva preso contatto radar con unità in avvicinamento ad alta velocità, poi riconosciuti a vista alla distanza di 1 miglio per incrociatori con torri binate a poppa assomiglianti alla silhouette dell'incrociatore leggero francese Duguay-Trouin. La SC 503 era stata poi presa a bersaglio, da distanza ravvicinata, dal tiro delle navi nemiche, con cannoni e mitragliatrici, supportato dalla luce di proiettili illuminanti. Ma poi, dopo aver sparato on alcune salve circa 50 colpi, compresi gli illuminanti, tutti caduti lunghi dal caccia sommergibile, i due incrociatori si erano allontanati ad alta velocità verso nord-est, e al comandante Johnson non resto che segnalare di essere stato attaccato da navi.[1][1] Barbara Brooks Tomblin, Witth Utmist Spirit. Alled Naval Operations in the Mediterranean 1942-1945, The University Press of Kentucky, 2004, p. 221; Messaggio da CTF 88 (Comando Task Force 88) a Com 8th Feet, Cincmed, CTF 86, C.G. (Commanding General) 7th Army 12.25 06 agosto. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted February 23, 2019 Report Share Posted February 23, 2019 Dal War Diary del CTF 88, da bordo della nave ammiraglia USS PHILADELPHIA a Palermo per il 6 agosto 1943 ore 11.30 circa:"Il Lt. Johnson, comandante del SC 503, è salito a bordo per riferire di esser stato preso sotto il tiro di due navi sconosciute, ritenuti piccoli incrociatori, alle 04.20 del 6 agosto a circa 5 miglia ad est dell'isola di Ustica, mentre era alla cappa in attesa di entrare a Santa Maria alle prime luci. La cisterna per acqua è stata lasciata a Ustica." Dal War Diary del 10 agosto:"Due motovelieri [MARIETTA G. di 91 tsl/1905 e 130 tpl, già V 322 per la Regia Marina, requisito dagli americani il 3 agosto e GIANNINA di 100 tpl, requisito il 4 agosto ndt] sono rientrati a Palermo da un viaggio costiero verso est, essendo stati in un'area soggetta a bombardamenti. La water barge è rientrata dall'isola di Ustica dopo esser stata attaccata da E-boats [motosiluranti? forse i nostri incrociatori ndt]. Tutti e tre i battelli hanno equipaggi nativi, che sono disponibili a compiere ulteriori viaggi." Quindi una cisterna per acqua locale, non meglio identificata. SC-503 ex PC-503: in servizio il 24 aprile 1942, costruito da Rice Brothers Corp., East Boothbay, Me., 148 tonn. di dislocamento a pieno carico, lunghezza 110 ft 10", due diesel General Motors da 880 bhp, due eliche, velocità 15.6 nodi, equipaggio 28, armamento 1 mitragliera Bofors da 40 mm, 2 mitragliatrici da 12.7 mm (.50 cal.), due lanciabombe antisom tipo "Y gun" e due rotaie per cariche di profondità. Lunedì una foto. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco De Domenico Posted February 25, 2019 Report Share Posted February 25, 2019 Eccola qua: PC 503 poi SC 503 in allestimento in cantiere. Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted February 28, 2019 Author Report Share Posted February 28, 2019 Caro Francesco, la foto é quella che mi serve. Soltanto che non riesco a riprodurla. E' come fosse di un PDF. Potresti spedirmela tramnite posta elettronica. Grazie. Ciao Franco Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted March 1, 2019 Author Report Share Posted March 1, 2019 Tutto a posto. Ho risolto riproducendo la foto della SC 503. Nille Graziie Franco Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
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