Francesco De Domenico Posted May 19, 2016 Report Share Posted May 19, 2016 ARTIGLIERIE E TIRO NAVALE ITALIANO 1) La produzione di artiglierie navali in Italia e le conseguenze operative Per parlare di tiro navale nella seconda guerra mondiale è inevitabile trattare il tema delle capacità industriali nazionali nel settore della produzione di cannoni navali. In queste note si esaminano, in termini divulgativi, gli aspetti industriali e le difficoltà di realizzare in un contesto difficile artigliere capaci di rispondere alle esigenze della Regia Marina, soffermandosi sulle conseguenze della dispersione del tiro navale, citando solo marginalmente le problematiche e limitazioni del tiro antiaereo, altra piaga, più ancora che lacuna, delle artiglierie navali italiane. L’ industria siderurgica italiana nasce per investimento e filiazione di quella inglese, cosi come l’industria meccanica pesante, e l’industria bellica, con la fabbricazione di artiglieria, ne era una logica appendice, con le stesse matrici. Dalla sua nascita sino ai primi anni del 900 la Regia Marina Italiana Storicamente è dipesa in gran parte dall’industria straniera per armi, munizioni e accessori (produzione all’ estero e molto limitatamente su licenza). Anche nel caso di produzioni nazionali (su licenza o meno) l’industria italiana non riuscì a fornire artigliere totalmente soddisfacenti ai requisiti e necessità della RM; i principali fornitori, Ansaldo, che inizialmente aveva lavorato su licenza francese Schneider, e Vickers Terni o la Armstrong, erano strettamente dipendenti dalla tecnologia ed assistenza estera. Il settore più carente era, e rimase nel tempo, quello della produzione di acciai di elevata qualità Le case madri, soprattutto quelle inglesi, riuscivano a controllare totalmente l’industria italiana anche con limitatissimi investimenti / partecipazioni, grazie anche alla debolezza, alla discontinuità e litigiosità tipiche del capitalismo italiano. Le caratteristiche e le esigenze della guerra navale del 1^ conflitto mondiale non imposero d’ altra parte opportuni sviluppi nelle artiglierie italiane, considerando, per l’Italia, la mancanza di esperienze dirette di un conflitto dove non si era presentata l’occasione di verificare materiali e tattiche per armi di calibro superiore ai 120mm. La RM, a guerra finita, si trovò inoltre a gestire un consistente parco di ottime artiglierie, navali e terrestri, di origine austriaca e tedesca, con conseguenti minori spinte verso lo sviluppo del settore. La gestione di tali artigliere, con l’incorporazione delle prede belliche nella Regia Marina e l’impiego del munizionamento originale, fu una premessa importante ed un campanello di allarme inascoltato sul ricorrente e mai risolto problema della dispersione del tiro: fino a quando fu utilizzato il munizionamento originale i DT italiani non ebbero problemi di dispersione, che cominciarono ad evidenziarsi appena cominciò ad utilizzarsi nuovo munizionamento di produzione nazionale. artigliere da 149mm entrate in servizio nella regia Marina quali prede belliche della 1^GM Malgrado le indicazioni della Regia Marina ed il conseguente tentativo di imporre specifiche restrittive, la lobby industriale riuscì sempre ad aggirare od alleggerire i controlli. L’autarchia che seguì l’avvento del fascismo e l’isolamento (seppur in molti casi più di facciata che di sostanza) portarono concentrarsi esclusivamente su materiale di produzione nazionale, mancando così qualsiasi spinta competitiva o l’adozione di processi/progetti derivanti da esperienze in altri teatri operativo, rimanendo sempre prevalente ed incombente la difficoltà di approvvigionamento di materie prime. In un quadro di quasi totale assenza di una tradizione industriale in materia, che si sommava alla già citata inesperienza bellica della 1^GM, partendo praticamente da zero, i risultati ottenuti da una dispersione di studi, progetti, esperimenti ed errori, consentirono comunque al regime affermare, nel 1936, di essere totalmente autonomi ed indipendenti. L’ autarchia ad oltranza, almeno di facciata, fu anche un alibi per le speculazioni di alcune lobbies industriali italiane, che - nonostante gli sforzi compiuti negli anni 30 a livello di studi, e nonostante alcune scelte ingegnose, soprattutto in campo meccanico - non seppero compiere le adeguate scelte tecnologiche ed impiantistiche né modernizzare gli impianti né adottare nuovi processi metallurgici e costruttivi. la Seconda Guerra Mondiale colse la Regia Marina, ma ancor più l’industria nazionale, impreparati e non sempre in grado di competere con gli avversari. I progettisti rispondevano evidentemente alla politica ed ai dettami dei gruppi industriali di cui facevano parte, e raramente avevano un rapporto diretto con coloro che erano destinati ad impiegare le armi; questo, a valle di un ventennio di stasi produttiva, fu causa di errori progettuali a cui si cercò di rimediare a posteriori con interventi costosi e non sempre di facile realizzazione sui materiali già in uso. Le lobbies industriali avevano d’ altra parte non solo l’ interesse, ma anche la possibilità, dialogando direttamente con il compratore (il governo/regime) scavalcando l’ utente (Regia Marina), di procedere rapidamente a forniture, e nella maggior quantità possibile, senza attendere né la messa a punto di prototipi né prove operative: il ricatto autarchico era facile ed immediato, senza consistenti ordini, comunque ottenuti, non si poteva mantenere in piedi l’ industria nazionale, attivando cosi un circuito vizioso dell’ inefficienza. Non si investi mai veramente ed a fondo sull’ innovazione, intesa anche come impianti e processi produttivi, mancando anche il confronto e la collaborazione con l’ industria straniera, e non fu possibile rimediare ad alcuni degli errori evidenziatisi con la precipitata messa in servizio. anche le troppo vantate capacità e meraviglie di alcune soluzioni meccaniche, alcune valide e geniali, non avevano valenza di produzione di massa ed erano palliativi per sopperire ad altre deficienze o impossibilità nella catena di processo e produzione. In un quadro di inesperienza, di stasi progettuale produttiva di oltre un ventennio, le direttive progettuali dell’epoca erano improntate dall’ esasperazione di alcune caratteristiche, per esempio alla ricerca della massima velocità iniziale del proietto allo scopo di ottenere grandi gittate (artifizio e non vero risultato, che permetteva all’ industria spuntare importanti premi ed extra prezzo, anche se questi andava a detrimento della precisione) cosi come alla ricerca del massimo risultato con il minimo peso ( regola deleteriamente comune alle altre Armi) con effetti anche in questo caso negativi, come la imprecisione/dispersione del tiro Regola del massimo risultato con il minore impegno / minor peso che si traduceva in molti casi nella possibilità di realizzare numeri relativamente alti soddisfacendo così lo spirito promozionale, la proiezione guerriera del sistema politico. 2) Breve panoramica della produzione industriale italiana tra le due guerre mondiali Parlando di tiro navale, la focalizzazione riguarda i 6”(152 mm) gli 8” (203 mm), i 15 “ (381mm) e solo marginalmente gli inusuali 320 mm. 2.1) La prima generazione di artiglierie navali di produzione nazionale. In base alle “filosofie” di cui sopra, o meglio per mancanza di una vera strategia supportata da filosofie e capacità industriali, con poche referenze ed esperienze, la costruzione di artigliere navali in Italia riprese con la firma del trattato di Washington quando l’Ansaldo realizzò il 203/50 mod. 1924. Si trattava di un complesso binato a culla unica, caricamento ad angolo di elevazione fisso con elevatore unico; complesso risultato molto leggero, era considerato particolarmente adatto per rientrare nei pesi/dislocamenti imposti dai trattati navali. I complessi di questo modello furono imbarcati sugli incrociatori pesanti Trento e Trieste ma risultarono estremamente lenti come cadenza di tiro (a stento 2 colpi al minuto) e, con i due pezzi di ciascun complesso vincolati tra loro, le dispersioni risultarono eccessive, tali che sarebbero state inaccettabili in un diverso contesto. Progettati nel 1924 e messi in servizio nel 1928, avevano una lunghezza di 50 calibri e pesavano 29 ton., con una gittata max di 28/30.000 m, comunque inferiore ai cannoni francesi contemporanei. Inizialmente era stata pretesa una velocità iniziale, alla bocca, di ben 905ms, considerata necessaria per gittate molto elevate, che poi venne ridotta a 840 m/s per diminuire la dispersione di tiro. Gli azionamenti delle torri erano elettrici, ed i complessi presentavano una struttura molto rigida, oltre alla culla unica, con la conseguenza che le concussioni allo sparo di armi troppo vicine pregiudicavano la precisione ed aumentavano la dispersione. Anche il successivo artifizio di introdurre un minimo ritardo nello sparo della salva della torre non influì molto nel ridurre la dispersione di tiro. Ne seguirono due versioni migliorate, dette 203/53 mod. 1927 e 1929, con anima sfilabile e caricamento a qualunque elevazione, relative ai complessi imbarcati sugli incrociatori pesanti classe Zara mentre il Modello 1929, con protezione della torre più leggera, fu adottato per il Bolzano. Complesso artiglieresco sviluppato per correggere gli evidenti difetti del primo, inizialmente sembrò addirittura peggiore anche se in seguito considerato il migliore tra i 203 mm italiani. Il peso fu ulteriormente ridotto, a 27,2 ton, e la gittata ebbe un incremento ad oltre 31.000 m. La velocità iniziale di 930 m/s, adottata progettualmente per le già citate agevolazioni economiche di fornitura, comportò dispersioni eccessive e si dovette modificare il munizionamento riducendo la velocità iniziale a 900 m/s, il che portò a dispersioni minori delle precedenti soluzioni. 203/53 al montaggio in officina Gli impianti, ancora a culla unica, nonostante questa limitazione ebbero elevatori di rifornimento e caricamento separati e possibilità di caricamento a tutte le elevazioni, con vantaggio nella celerità del tiro che raggiunse 3-4 colpi al minuto. I cannoni calibro 8”, 203 mm, della RM continuarono comunque ad avere problemi con la dispersione di tiro, impiantisticamente per il perdurare della soluzione a culla unica. Una parentesi tecnologica va aperta in merito alla soluzione tipicamente italiana di anima sfilabile (e sostituibile) a freddo: pur essendo il risultato di una lavorazione meccanica di alta qualità e precisione, era anche l’ evidenza ed il risultato della mancanza di acciai di alta qualità: con gli acciai disponibili (e le caratteristiche di sparo, con elevate velocità alla bocca) l’ usura era molto elevata, e la sostituzione dell’ anima dopo 200 o poco più colpi, era la soluzione più economica per assicurare un minimo di vita ai complessi; va notato che pur prevedendo una vita utile delle anime di 200 o più colpi. Il decadimento era progressivo e già dopo un centinaio di colpi l’usura diventava un ulteriore fattore della già critica dispersione dei colpi 152/53 al montaggio presso l’ Ansaldo Nella classe dei complessi da 6”, per gli incrociatori leggeri classe da Giussano, la OTO realizzò il 152/53 A-1927, caratterizzato dal caricamento a braccio oscillante che diede poi origine ai seguenti, il 152/53 OTO-1929, il 152/55 A-1932 per gli incrociatori leggeri classe Diaz, Attendolo e Aosta. La culla unica oltre ad essere fattore di dispersione del tiro creava ulteriori difficoltà nella sequenza di caricamento a causa della poca distanza tra le culatte e le interferenze con i meccanismi e le procedure di caricamento. Quale possibile evoluzione e correttivo, l’Ansaldo realizzò il 152/55 mod. 1934 e la OTO il mod. 1936, mentre la Regia Marina a propria tutela impose che ambedue i modelli usassero lo stesso munizionamento. Purtroppo i due modelli presentarono anche analoghi inconvenienti; La velocità iniziale, spinta fino addirittura a 1000 m/s, dovette essere ridotta di 100 m/s per contenere le dispersioni, che comunque rimasero molto elevate. La soluzione a culla unica, la meccanizzazione molto spinta del sistema di caricamento, l’eccesiva leggerezza dell'insieme, furono causa di innumerevoli inconvenienti e si dovette procedere a numerose modifiche. Gli interventi correttivi contribuirono a rendere il funzionamento più sicuro ma non riuscirono a ridurre la dispersione di salva. Il successivo 152/55 A, destinato a navi dove il problema dei pesi aveva minore criticità, risultò decisamente migliore di tutti i nodelli/varianti della classe 203-152. Per questo modello si prestò una maggiore attenzione ai materiali e per un miglior rendimento termodinamico dell’arma si ricorse anche all’ aumento della lunghezza della canna; il risultato fu una maggior precisione rispetto al 152/53. Le modifiche furono sostanziali, i cannoni erano a culla singola, i congegni erano più semplici, vi era la possibilità di manovrare a mano ogni cannone il che garantì una maggiore efficienza e sicurezza di funzionamento, solo teoricamente a scapito di una celerità di tiro inferiore (5 colpi al minuto rispetto ai 6 del 152/53). Fu installato sulle classi Condottieri tranne che sulle due unità del gruppo Abruzzi. I cannoni, montati eccessivamente vicini, ebbero problemi di dispersione, aggravati anche, nei primi incrociatori, da affusti troppo leggeri, specie considerando l'alta velocità iniziale che contraddistingueva queste armi. Furono costruiti sia dalla OTO che dall'Ansaldo, in ambedue casi con otturatori a spostamento orizzontale. Per esigenze di spazio e peso, la dotazione di proiettili per nave era di sole 35 granate per cannone, 50 in tempo di guerra. Nei modelli 1934 della Ansaldo e 1936 della OTO la lunghezza delle canne fu aumentata a 55 calibri e l’arma risultò molto migliorata. Le capacità tornavano ad essere buone per la media del calibro grazie anche alla soluzione di cannoni con maggiore separazione ed elevazione indipendente. Vennero usati dagli ultimi due "Condottieri" e dalle "Littorio". Prima di entrare nelle caratteristiche dell’arma “principe” italiana del periodo, il 15” (381 mm, che probabilmente era già al limite della capacita tecniche/tecnologiche dell’ industria italiana) va notato nuovamente la relativa anomalia che le specifiche contrattuali dell’epoca improntate sulla massima velocità iniziale del proietto, allo scopo dichiarato di ottenere gittate estremamente lunghe. In base a tali presupposti, l’Italia si concentrò sulla produzione del “massimo possibile”, il 15 “, mentre le altre Marine erano già impegnate su calibri superiori, almeno 16” (406mm) La stessa Ansaldo, per le forniture alla Russia, era impegnata su calibri superiori. Il “famoso” 381/50 delle navi da battaglia classe Littorio, era dato per gittate dii 42.800 m mentre il 203/53 superava i 31.500, prestazioni assolutamente eccezionali anche se i valori di velocità iniziali correlati, troppo elevati erano causa di dispersioni inaccettabili, oltre al fatto che a quelle distanze gli apparati di direzione del tiro delle navi non potevano condurre adeguatamente il tiro, dato che non riuscivano neppure a vedere i bersagli che si trovavano oltre l'orizzonte. Il cannone da 381, mod. 34, lungo 50 calibri, fu prodotto dall'Ansaldo e dalla Odero Terni Orlando (OTO) negli stabilimenti di Genova e di Terni/la Spezia, negli anni compresi tra il 1934 e il 1940. La soluzione produttiva per la canna del cannone da 381/50 era quella di quattro elementi tubolari forzati a caldo, con tubo d'anima ricambiabile a freddo. Questa scelta dipendeva dal fatto che mentre le lavorazioni meccaniche italiane, seppur con molte limitazioni quantitative, di produzione in serie e non “dedicata/artigianale”, potevano considerarsi eccellenti ed all’ altezza dei tempi, cosi non erano le lavorazioni metallurgiche/disponibilità di acciai di elevate qualità. Il blocco di culatta era in acciaio fuso, costruito in due metà collegate tra loro da grosse chiavarde orizzontali e conteneva: l'otturatore di tipo "Welin" a vitone, il congegno di sparo, il congegno scacciafumo ad aria compressa e quattro freni-recuperatori disposti simmetricamente rispetto all'asse del cannone. La massa oscillante, il cui peso raggiungeva i 102.400 kg, era completata da una culla in acciaio fuso con orecchioni, dotata di attacchi per i recuperatori e del settore di elevazione. la sezione longitudinale di una torre trinata da 381/50 I cannoni da 381/50 erano montati in torri corazzate dal peso complessivo di 1.591 ton, comprendenti tre armi a culla indipendente sistemate in altrettanti compartimenti separati per mezzo di una paratia corazzata. I meccanismi di elevazione erano separati per le tre armi, mentre il congegno di brandeggio della torre era ovviamente unico. Le già citate limitazioni per le lavorazioni meccaniche e per la produzione in serie limitata e neppure di massa, fecero si che armi della Littorio fossero prodotte dall'Ansaldo, mentre la OTO realizzò i tre complessi della Vittorio Veneto. Per queste armi, malgrado la serie limitata, furono necessari importanti investimenti impiantistici da parte dei fornitori, ricordo dei quali è rimasto ancor oggi il “capannone verticale” della OTO di La Spezia, originalmente destinato ai trattamenti termici dei 15”. Per soddisfare i tempi di approntamento la successiva Roma ebbe due complessi di costruzione OTO e uno Ansaldo; i tre complessi per la corazzata Impero furono costruiti dall'Ansaldo ma non vennero sistemati a bordo in quanto l'unità non fu mai terminata. Il caricamento dei cannoni da 381/50, che impiegavano munizionamento separato (carrello, carica di lancio e proietto separati), veniva effettuato con l'arma in posizione fissa a 15° di elevazione a mezzo di un calcatoio idraulico che provvedeva al caricamento del proiettile a cui seguivano i sei elementi costituenti la carica di lancio. Il trasferimento dei proiettili e delle cariche dai depositi sino alle cucchiaie di caricamento poste dietro la culatta dei pezzi avveniva attraverso un sistema di giostre ed elevatori elettro-idraulici, sistemati in parte nella virola della torre stessa per seguire il brandeggio e permettere il caricamento in qualsiasi posizione, ed in parte sotto la virola stessa, come alimentazione e smistamento dai depositi cariche e proiettili. Il ritmo di fuoco con personale addestrato era di circa un colpo a prima carica (6 elementi) ogni 45 secondi. La dotazione era di 495 proiettili "a palla" (perforanti) e 171 granate dirompenti da 381 oltre a 4.320 elementi di carica conservati in cartocci. Il peso totale di un proiettile perforante era di 882 kg con circa 18 kg di carica, quello della granata dirompente era invece di 774 kg con una carica di scoppio di circa 80 kg. Alla gittata media di 18.100 m, corrispondente ad una elevazione del pezzo di 9° 14', la durata del tragitto in aria del proiettile perforante era di 26,00'', la derivazione per effetto della rotazione sull'asse del proiettile era di 126 mt., il proiettile giungeva sul bersaglio con una velocità residua di 590 m/sec e con un angolo di caduta di 11° 43'' rispetto alla linea dell'orizzonte. Tali dati rappresentano la configurazione di una traiettoria piuttosto "tesa" dovuta alle buone caratteristiche di potenza dell'arma il cui proiettile alle medie distanze aveva un forte potere di penetrazione. Considerazioni a parte, di tipo tecnico/tecnologico, meritano i vecchi canoni da 12” (305 mm) della Regia Marina, ritubati all’ inusuale calibro di 320mm. Armi in linea con gli indirizzi dell’inizio secolo, ed allora tecnicamente aggiornate alle necessità/standards della 1^ GM, i 305/46 costituivano l’ armamento principale delle corazzate delle classi Cavour e Duilio. Erano stati costruiti su progetto Armstrong del 1909 negli stabilimenti Armstrong di Pozzuoli e Vickers di Terni (in quell’ ottica di assoluta dipendenza da tecnologie e brevetti stranieri, con predominanza inglese – la presenza Schneider francese sul mercato italiano fu sporadica e marginale) lo sbarco dei cannoni da 320 dalla Cavour per allegerirla prima del trasferimento a Trieste Montati in torri corazzate trinate e binate, gli impianti, tutti a culle indipendenti, avevano una elevazione massima di 20° e una depressione di 5°. La particolarità dei cannoni, all’ altezza delle tecnologie e delle capacità industriali del primo ‘900, era quella della costruzione “a nastro”, ovvero un tubo d’anima sfilabile intorno al quale era avvolto in numerose spire un filo d’acciaio, a cui erano sovrapposti due tubi concentrici di cui il più grosso ricopriva circa un terzo della lunghezza del cannone a partire dalla culatta. Quando si decise l’ammodernamento delle unità appartenenti a queste classi, decisione molto contestata all’ interno della stessa Regia Marina, con l’opposizione dei “giovani leoni” come l’ Amm Bernotti, sembrò conveniente ricalibrare i cannoni portandoli da 305/46 mm a 320/43,8 mm. Un’ operazione complessa, inusuale, potremmo dire “di immagine”, resa possibile grazie al largo margine di resistenza con cui l’arma era stata originariamente progettata. La modifica riguardò lo sfilamento del tubo d’anima, l’eliminazione di un certo numero di fili d’acciaio e il ritubamento del pezzo con la nuova anima da 320 mm. lo sbarco di uno dei pezzi a culla singola da 320/44 della Cavour Armi formalmente spacciate come un successo, con sensibile aumento della gittata, un incremento di prestazioni nell’ordine del 30%, nello stesso tempo evidenziarono come la resistenza longitudinale alla flessione fosse ridotta oltre a registrare una diminuzione delle caratteristiche di precisione essendo risultati maggiori i fenomeni di dispersione. le torri prodiere da 320/44 del Doria I risultati della ricalibrazione dei vecchi 305, montati in nuove torri corazzate binate e trinate, che assunsero la nuova denominazione ufficiale di 320/44 Ansaldo e O.T.O. 1934 e 1936, furono giudicati soddisfacenti solo in termini economici e di approntamento in quanto consentirono di dotare le corazzate rimodernate di cannoni di discreta potenza con una spesa limitata ed in tempi abbastanza brevi. Alla prova operativa queste artiglierie non dettero alcun risultato nei pochi scontri in cui trovarono impiego 2.2) La seconda generazione di artiglierie navali La Regia Marina era conscia delle deficienze e limitazioni di quella che era la “prima generazione” di produzione autarchica di artiglierie navali: anche se ebbe effetti minimi sulla condotta ed esiti della guerra, era pronta una seconda generazione di artiglierie navali, di prestazioni superiori, ma soprattutto di concezione moderna. Probabilmente, se fossero state rispettate le previsioni di guerra per il 1942/43, “il sistema” artiglieresco della Regia Marina sarebbe risultato migliore, ma non si può in nessun caso ragionare sul senno di poi. Basti pensare, come semplice riferimento, alla migliore delle bocche da fuoco navali del periodo, il 135/45 prodotto in serie molto limitate a partire dal 1937. Questi cannoni, apparsi con le corazzate 'Duilio' ammodernate (in torri trinate), capaci di sparare granate da 32 kg a circa 19 km, erano armi con una dispersione molto ridotta, pari a circa un quarto dei cannoni calibro 120 mm e, precise perché se non altro, non era richiesta la solita velocità iniziale elevatissima (piuttosto controproducente per durata e accuratezza). Erano armi antinave, seppur con una limitata capacità di tiro antiaereo, essenzialmente per azioni di sbarramento. Quando la supremazia dell’aereo divenne inconfutabile, e la minaccia aerea prioritaria, la Regia Marina chiese di poter disporre di un complesso “pesante, da 120 mm o superiore, che oggi definiremmo “dual purpose” ossia con capacità antiaeree e antinave, ma l’industria dell’epoca non fu in grado di dare una risposta, ricorrendo al 135 che però, per peso e dimensioni, aveva limitazioni per le unità di minore dislocamento. Dopo la serie prototipica, per le corazzate rimodernate, e la serie iniziale per i Condottieri, era stato disegnato un nuovo complesso, destinato ai caccia "Comandanti", agli incrociatori "Etna" con capacità antiaeree, eventualmente alle portaerei, ma non venne mai completato un tale affusto. Il 135/45 ebbe un impiego operativo limitato, in complessi binati per i Condottieri Romani, con una dotazione un totale di 320 colpi per cannone più quelli illuminanti; non esistono statistiche e rapporti operativi soddisfacenti, anche se il giudizio complessivo fu positivo e se ne propose una versione migliorata e modernizzata, soprattutto come caricamento automatico, sino agli anni 60 (incrociatore lanciamissili Garibaldi) le torri prodiere binate da 135/46 d.p. dello Scipione Africano Di questa seconda generazione si ricorda, e si riportano i dati, del solo 135/46, ma significative furono anche le realizzazioni dei complessi da 90/50 e 65/ destinate al tiro antiaereo, con miglioramenti dovuti anche all’ adozione, pur in una sempre più alta crisi di disponibilità, di materiali più idonei, come le canne in acciaio al Ni-Cr-Mo. Nella seconda generazione di artiglierie navali italiane va considerato anche un pezzo di grosso calibro, 406mm/50cal, che però non vide la luce in Italia, né esisteva una programmazione della R.M. per unità che potessero imbarcarlo. 2.3) La politica di esportazione Se le forniture italiane erano regolate, e condizionate, dal potere contrattuale in un quadro di autarchia e dalle relazioni politiche, di lobby, dei costruttori, diversa era la politica commerciale ed industriale nei tentativi di esportazione. Certamente la propaganda di regime era una potente macchina promozionale per l’industria bellica italiana, ed una importante vetrina per i risultati dichiarati, indipendentemente dall’ attendibilità, ma oltre a quelle relative alla vendita di navi complete molte furono le opportunità e poche furono le possibilità per le artiglierie navali italiane, ed anche le Marine che acquisirono unità complete, come il caso svedese, sostituirono o modificarono l’armamento originale. La stessa URSS, il maggior cliente italiano, e più duraturo, anche nel caso del Ct Tashkent costruito a Livorno non richiese artiglierie italiane, né acquistò mai artigliere navali di medio/grosso calibro in Italia, nemmeno sotto forma di licenza e nemmeno per le unità realizzate su disegno e/o con assistenza italiana (né i numerosi Ct né gli incrociatori Kirov e successivi) Caso a parte quello del faraonico progetto delle supercorazzate classe Sovetsky Soyuz (Progetto 23), delle quali ben sedici avrebbero dovuto essere costruite, tutte in cantieri sovietici a partire dal 1937, con l’impostazione in diversi cantieri delle prime quattro unità (mai seguite da altre). Concepite come risposta, ridondante, alle corazzate allora in costruzione in Germania, in un diverso scenario bellico singolarmente non avrebbero facilmente rivaleggiato con le Yamato giapponesi o le statunitensi Montana già pianificate; dotate di nove pezzi da 406mm (16.0 in) da confrontarsi con nove 460mm (18.1 in) giapponesi oppure dodici 406mm (16-in) statunitensi. Una comparazione valida, almeno sulla carta, solo nei confronti delle rivali Bismarck, soprattutto se si tiene conto del potenziale di bordata rispetto agli altri potenziali avversari, le classi Yamato e Montana. I 406 sovietici, con una bordata di 9970 kg, contro 13590 kg della Yamato o 14694 kg della Montana, a prescindere dal non efficiente sistema di direzione del tiro sovietico. L’ Ansaldo offri un progetto aggiornato, e più equilibrato, della classe Littorio, tarato su un dislocamento standard di 43000 T, armato con cannoni da 406mm, per essere almeno alla pari con le attuali costruzioni statunitensi, inglesi e giapponesi, sistemati in tre torri trinate; il progetto Ansaldo non convinse totalmente i sovietici, che ricorsero ai disegni della statunitense Gibbs&Cox che presentò ben quattro varianti, una delle quali un ibrido portaerei/supercorazzata; la collaborazione con Gibbs&Cox non ebbe ulteriore sviluppo per l’ opposizione della US Navy e l’ intervento dell’ Amministrazione USA (malgrado la forza di Gibbs&Cox) che applicò l’ Espionage Act per bloccare qualsiasi ipotesi di ulteriore assistenza, fornitura e cessione di know how. Ansaldo prosegui sin quasi al 1941 nel ruolo di consulente ed assistente tecnico alla progettazione, con speciale enfasi alle artiglierie, che dovevano essere totalmente prodotte dall’ industria sovietica: fu ordinato un primo lotto di dodici cannoni da 406mm, da 50 calibri, la cui costruzione iniziò nel 1939,dopo la progettazione delle torri, così come dei cannoni, con la cooperazione e l’assistenza dell’Ansaldo (anche se non sono da escludere partecipazioni di OTO per la lobby e gli interessi della famiglia Ciano). una delle foto più note di un cannone 381/50, un eseplare assemblato in fabbrica a Genova quest’ arma servi di riferimento per il 406/50 sovietico Il programma incontrò molte delle difficoltà già riscontrate in Italia per i materiali e la costruzione dei 381, sino a quando, a causa dello scoppio della guerra, l'allestimento dei complessi (come delle navi) venne sospeso. Solo un pezzo, in torre singola designata MP10- B37 e già in corso di prove al balipedio, fu utilizzato operativamente, per azioni di difesa durante l'assedio di Leningrado. Il cannone sino a poco tempo or sono era ancora nell’ ambito dell’installazione di prova, alla periferia di San Pietroburgo, ed uno dei suoi proiettili è in mostra presso il Museo Navale Centrale, a San Pietroburgo. Le torri trinate erano previste ad azionamento elettrico, realizzate secondo l’ormai usuale schema italiano, mentre le prestazioni di progetto risultavano diverse, e sulla carta superiori, a quelle previste per le quasi contemporanee unità italiane, ovviando a certi inconvenienti riscontrati sulle stesse: i cannoni potevano andare in depressione a -2° ed in elevazione a +45°. Il caricamento avveniva ad elevazione fissa di +6° ed il ritmo di fuoco dipendeva dagli scostamenti e dai tempi per raggiugere e ritornare da questa elevazione. Si stimava comunque un ritmo elevato, da 2 a 2,5 colpi/minuto. 406/50 sovietico di progetto Ansaldo in prova in installazione singola nel balipedio di Leningrado La velocità di elevazione era di oltre 6°/sec e la velocità di brandeggio di 4.5°/sec. La dotazione di munizioni non era certamente elevata, 100 colpi/canna; i proiettili erano da 1100 kg, sia perforanti che esplosivi, con una gittata di oltre 45.000 mt con una velocità prevista alla bocca di 870 m/sec (alle prime prove mantenuta a 800/830 m/sec con munizionamento HE1928, con gittate dell’ordine di 25.000 m). I dati relativi oggi disponibili sono controversi, in quanto viene citato l’uso di moderno munizionamento B-35 AP, con gittate dell’ordine di 33/35000 m con velocità alla bocca di 950 m/s, la stessa possibile anche per munizionamento semi-AP 1928, seppur con gittate inferiori. Tale velocità alla bocca avrebbe si assicurato una lunga gittata ma esasperato i difetti tipici di quest’ arma, dispersione ed usura I cannoni, con una lunghezza totale di 20,7 m (a cui corrispondevano 19,9 m di lunghezza della canna e 16,8 m della rigatura, complessa, di 40 solchi) avevano un peso di circa 137 Tonn mentre il peso stimato del complesso trinato, a culle indipendenti, avrebbe dovuto essere intorno alle 2400T, anche se qualche dubbio esiste al riguardo, dipendendo dalla protezione che finalmente si sarebbe voluto assicurare al complesso, in un quadro di grandissime difficoltà nella produzione di acciai speciali e corazze. Nel corso della costruzione, delle prove e della breve vita operativa emersero i problemi tipici delle artiglierie navali italiane, con la mancanza (anche in URSS) di acciai speciali e la scarsa vita utile della canna, stimata (forse per eccesso ed accettando un forte decadimento, di almeno il 10%) in 300 colpi, anche se in realtà tale traguardo massimo era del tutto teorico, considerato che già in sede di prova venne valutato un decadimento eccessivo già intorno ai 150 colpi L’ alta velocità inziale, tipica della progettazione italiana, non favoriva certamente la durata della canna e la persistenza delle caratteristiche di balistica interna, con il tipico effetto/difetto della grande dispersione, verificata anche nell’ installazione di prova, singola (terrestre!!! Quindi non soggetta a fenomeni tipici delle installazioni multiple e dell’impiego a bordo, dal movimento nave a vibrazioni e concussioni). Al di là della grande portata dichiarata, riguardo al progetto sovietico come sistema artiglieresco sorgono dei dubbi in merito alla qualità/affidabilità delle ottiche e dei sistemi di condotta di tiro che avrebbero dovuti essere adottati. 3) Le deficienze del tiro navale italiano nella seconda Guerra Mondiale – Opinioni e tesi Al termine di questa panoramica sulle principali artigliere, per il tiro navale, in uso nella Regia Marina durante la seconda GM, occorre sintetizzare le opinioni di carattere tecnico sulle “deficienze” del tiro italiano, rispetto a quello ben più efficace (almeno come risultati) che si verificava nelle artiglierie delle altre marine. Si tratta di deficienze che erano note già dall’ analisi dei dati della prima guerra mondiale, malgrado la mancanza italiana già citata di esperienze dirette sui grossi calibri e grazie al posteriore uso da parte italiana delle artiglierie austriache; le conclusioni, di cui fu ripetutamente portatore l’ammiraglio Iachino, e riprese nel dopoguerra da quasi tutti gli storici navali, in Italia ripetutamente da Mattesini, furono che le salve delle navi inglesi, francesi e austriache erano sempre assai fitte e avevano comunque una dispersione inferiore a quella del tiro italiano ; quando una loro salva era centrata sul bersaglio questo veniva sicuramente colpito da almeno un colpo. Il tiro italiano, anche quando risultava a cavallo del bersaglio, a causa della “grande dispersione dei colpi” non portava agli effetti desiderati, lasciando al caso il colpo a segno; la correzione usuale del tiro, in base all’osservazione dei punti di caduta, riusciva assai più difficile da noi che presso le altre marine” a causa della eccessiva dispersione longitudinale “anche variabile di salva in salva in maniera irregolare e imprevedibile”. Non dimentichiamo poi, per l’osservazione del tiro, la perturbazione di altri fattori, come la mancanza in campo italiano di cariche a vampa ridotta e l’effetto fumo che avvolgeva le navi in azione una foto del tiro dei 152/55 dell’ Incr Duca degli Abbruzzi nei primi anni 50, appena dopo il rimodernamento; anche per allora, in condizioni ottimali, si può valutare quanto fumo potesse produrre una salva, anche solo di cannoni di medio calibro; si può comprendere le difficoltà dell’ osservazione del tiro dopo salve di grossi calibri .. Molti autori, e soprattutto l’ammiraglio Iachino, hanno attribuito queste anomalie principalmente ai parametri del munizionamento prodotto dall’industria nazionale, perché le “norme regolamentari per il collaudo delle munizioni erano”, in Italia “assai meno rigorose di quelle in uso nelle Marine estere”. Ragion per cui, pur disponendo di proietti perforanti e di spolette di prestazioni simili a quelle in uso nella Marina britannica, non corrispose invece alle aspettative il bilanciamento e la meccanica dei proiettili nè la confezione delle cariche di lancio, ove, per quanto possa apparire un problema banale, non fu ottenuta identità tra di esse, relativamente al peso, alle dimensioni, alla distribuzione dei vari elementi che le componevano. Il risultato fu di avere al tiro grandi dispersioni dei proietti di una stessa salva. A mio parere, di fronte ai ben più richiamati, non so se più gravi, problemi del munizionamento, i problemi metallurgici e meccanici delle artiglierie navali italiane sono passati in secondo piano; pur essendo generalmente considerate buone, dai vari relatori viene riconosciuto che le artiglierie italiane, che al pari del munizionamento erano prodotte tutte da Ditte nazionali, avevano “dispositivi meccanici ed elettromagnetici per il caricamento e l’accensione alquanto delicati e spesso facevano avaria durante il tiro prolungato”; ragion per cui le salve delle “navi risultavano dopo qualche tempo incomplete poiché una parte dei proietti rimaneva a bordo”. Dispersione ed incompletezza delle salve, problemi gravi e riconosciuti sia a livello di didattica in Accademia Navale, sia nelle molteplici cronache degli scontri sia in numerosi confronti personali e discussioni con chi, ancora in servizio, aveva combattuto la 2^ GM; fortunatamente ebbi l’opportunità di conversare dell’argomento con tecnici e progettisti dell’Ansaldo che erano stati distaccati in Russia e negli anni 60 erano ancora in servizio, seppur in altri settori dell’allora AMN. Le considerazioni sulle difficoltà ed i continui interventi al riguardo coincidevano totalmente con quelle di ufficiali e sottufficiali ancora in servizio dopo aver combattuto a bordo nella 2^GM. Sulle cronache e sui rapporti ampiamente pubblicati non voglio né posso aggiungere nulla a quanto già noto, ma solo sposare in toto, come sintesi, gli scritti e le relazioni di Mattesini, sia su quanto sopra sia quando riporta in vari passaggi delle sue pubblicazioni le considerazioni dell’ammiraglio Iachino. Iachino afferma che “l’imprecisione delle artiglierie era particolarmente notevole sugli incrociatori da 10.000 e sui ct , ed in parte anche nei cannoni da 320 mm. delle corazzate tipo CESARE e DUILIO”; senza salvarli totalmente ritenne invece che durante la guerra avessero dato “migliori” risultati i cannoni da 381 mm. dei tipi LITTORIO”. Questa considerazione finale dell’ex Comandante in Capo della Squadra Navale, si è scontrata con pareri opposti di alcuni DT, tra cui, autorevole per quanto isolata ed opinabile, quella dell’ammiraglio Emilio Brenta. Egli ha riportato in un suo articolo che la Regia Marina aveva saputo “tecnicamente eliminare le dispersioni iniziali, maggiori o minori, dei suoi numerosissimi calibri, grossi medi e piccoli”, tanto che, “in alcuni casi fu addirittura necessario aumentare la dispersione perché con quelle troppo limitate era impossibile la direzione del tiro navale”. Lo stesso Brenta però, quasi contraddicendo se stesso, concluse affermando che purtroppo non era stato possibile attuare tempestivamente la riduzione delle dispersioni per le corazzate tipo “Littorio”, perché esse “furono sfornate guerra durante, in una situazione perciò la meno adatta per compiere studi ed esperienze di quel genere”. Dalle affermazioni del Brenta, ma soprattutto da interpretazioni parziali e poco tecniche delle stesse, hanno successivamente preso spunti alcuni autori per giungere ad affermazioni (non conclusioni) totalmente in contrasto con quella che è l’analisi tecnica accettata e documentata relativa alle deficienze ed inferiorità dell’artiglierie navali italiane, quale sistema, nella 2^ Guerra Mondiale. Le artiglierie sono un sistema di bordo, che va al di là dei “soli cannoni”, cosi come le deficienze del tiro navale vanno ben al di la della controversa questione della dispersione del tiro, nemmeno la più evidente ma solo la più dibattuta. Parlando di sistema, ed ampliando l’analisi alle varie componenti del sistema stesso, vorrei solo ricordare un ulteriore problema, non il solo mancante, molto trascurato da cronisti ed opinionisti navali; non si trattava solo di problemi costruttivi (imprecisione/dispersione), di mancanza di controllo di qualità delle dotazioni (munizionamento) ma anche di conoscenza/tecnologia di base. Le altre Marine, in particolare quella inglese, usavano cariche di lancio a vampa/fumo ridotte; si trattava di un fattore/tema completamente ignorato in campo italiano, eppure bagliori notturni e fumi compatti, diurni e notturni, accecavano gli operatori ed impedivano l’osservazione e l’aggiustamento del tiro, in forma ancor più critica che la valutazione delle dispersioni. Posso solo registrare una (forte) differenza di opinioni, fuorviante a mio parere perché non supportata da analisi tecniche ma basata sulle interpretazioni dei rapporti, iniziata dal Colliva forse partendo dall’ interpretazione del Brenta, in un saggio pubblicato nel Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (settembre 2003 e marzo 2004) che portava a conclusioni tolleranti se non positive (….nel quadro italico di ….cosi fan tutti …. mal comune è mezzo gaudio ..) mostrando - con tabelle comparative - che dopo tutto in ogni Marina vi era stata la difficoltà di colpire il bersaglio con i grossi calibri al disopra della distanza di 20.000 m. Conclusioni che non coincidono con i dati noti in altre Marine, a meno di non considerare casuali e fortuiti i successi di alcuni scontri, condotti tutti a distanze superiori ai 20.000 metri, dalla “Warspite” nel tiro sulla “Cesare”, dalla “Bismarck” nel tiro sulla sulla “Hood”, e infine quelli della “Iowa” e della “New Jersey” con tiri rapidamente messi a segno sull’incrociatore “Katori” e sul cacciatorpediniere “Maikaze”, alla distanza di oltre 31.000 metri. La precisione del tiro navale dei nostri avversari ha poi indubbi riscontri in impieghi in cui le unità italiane mai si cimentarono, ossia nelle pratiche del tiro controcosta, diffuso e molto più praticato del tiro antinave nel corso della 2^ GM, ripreso dalle stesse navi, praticamente con gli stessi sistemi e – notare – con lo stesso munizionamento (!!!) nella Guerra di Corea, nel conflitto vietnamita, nelle operazioni in Libano (poco). Quasi sempre si trattava di interventi quasi” chirurgici” che misero in luce la precisione e l’efficacia, determinante, del tiro navale Successi certamente favoriti da dispositivi e mezzi diversi da quelli in uso nella RM per la determinazione dei dati di tiro, ma che non sarebbero stati possibili senza un esatto dominio di balistica interna ed esterna, sicurezze di cui con ogni evidenza non disponeva la Regia Marina. Rimane poi un punto, esaurientemente trattato da tutti gli esperti in materia e che richiamo solo per completezza: non si capisce molto l’ accanimento, e quindi i compromessi tecnici pregiudizievoli, per raggiungere gittate intorno ai 40.000 quando l’ osservazione del tiro (anche da un’ altezza dei complessi di ben 40 metri sulla superficie dell’ acqua !!), non permetteva l’ osservazione a 30 Km (ed in quali condizioni..) Siamo in assenza di radar ed in presenza di centrali di tiro ottico con asservimento elettromeccanici, ingegnosi si ma molto complessi, relativamente lenti nell’ elaborazione dei dati, tanto complicate da essere soggette a molte avarie e sensibili a concussioni e vibrazioni. Non si venga a dire che il tiro poteva essere osservato e diretto da aerei da osservazione, perché cosi non è stato, e meno nella Regia Marina (i tempi di lancio e di posizionamento dei ricognitori di bordo erano incompatibili con le manovre, l’ immediatezza ed i tempi del tiro navale, ne d’ altra parte i ricognitori, sempre nel caso del tiro navale ed anche in assenza di contrasto aereo avversario, ben difficilmente potevano pre-posizionarsi e comunque dovevano tenersi a distanza del fuoco antiaereo nemico, né potevano discriminare la provenienza dei colpi con salve molto disperse). In ultimo, da parte di chi non è mai stato in mare e fa analisi a tavolino, è difficile comprendere le condizioni umane, di resistenza e di attenzione, del personale tenuto ad operare a grandi altezze sul livello del mare, dove ogni movimento della nave è amplificato .. basta riflettere sulla fotografia conclusiva 4) Citazioni, osservazioni e conclusioni Siamo stati spesso in presenza di Interpretazioni da cronisti, senza tener conto dei pareri e delle considerazioni degli specialisti, che hanno purtroppo portato alla formulazione di opinioni e di teorie (ed in alcuni casi di giustificazioni) in contrasto con la logica di accettazione di una sconfitta, per quanto onorevole, ma segnata sin dall’ inizio del conflitto per l’eccessiva disparità delle condizioni e della preparazione. E’ difficile trattare temi dibattuti, esaurientemente, da ormai settant’ anni; ho trovato illuminanti, e direi divertenti oltre che appropriate, le affermazioni di Francesco Mattesini che in un suo intervento affermava - in merito a nuove opinioni che sorgono a settant’ anni dalla fine della guerra e quando gli animi dovrebbero essere placati e le valutazioni obbiettive - che sommando alla logica il fumo dell’ignorante in materia, sull’argomento del tiro si può discutere di tutto, per poi rimanere ciascuno con le proprie idee. Condividendole, sull’ argomento dell’efficacia del tiro navale italiano, su cui si è scritto molto, non posso che concludere facendo una sintesi delle relazioni e pubblicazioni di Mattesini, di Iachino, di Fioravanzo, non opinabili in quanto sostenute da un ineccepibile back-ground tecnico e passate al vaglio di numerose analisi di studio della Guerra Navale. Noto solo, come motivo di ulteriori ricerche e più approfondita analisi, che non esistono (o non sono apparsi) dati in merito alle avarie dei complessi ed ai colpi “non partiti”, fattori spesso commentati ed apparsi in vari dibattiti e racconti ma non documentati, che aggraverebbero ancora il quadro negativo dell’efficacia del tiro navale italiano. I cannoni da 381/50 modello 1934 delle corazzate tipo “Littorio”, sistemati in torri trinate dal peso di 1.600 tonnellate, in cui ogni cannone era separato dall’altro da paratie corazzate, in modo da avere locali autonomi, possedevano una elevazione massima di 35°. Essi erano in grado di sparare una salva per torre ogni quarantacinque secondi, scagliando proietti perforanti da 882 chili alla distanza massima di 42.800 metri, e con velocità iniziale del proietto di 870 metri al secondo. Al pari dei cannoni da 320 m/m delle corazzate classe “Cavour” e “Doria”, i cannoni da 381 avevano “anima ricambiabile a freddo, il che - ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo - da una esatta idea dell’elevata perfezione costruttiva raggiunta dall’industria italiana in questo campo”. “Il solo difetto di tali complessi fu la dispersione ancora troppo grande, e ciò era causata in gran parte al fatto che “nei capitolati d’onere per la costruzione delle artiglierie non era accennato (o lo era di sfuggita) il requisito della precisione, mentre erano previsti cospicui premi per ogni metro di velocità iniziale in più di quello fissato, senza badare all’aumento delle dispersioni che questo incremento della velocità iniziale avrebbe prodotto”. Difetti di dispersione, che pure furono ridotti abbassando la velocità iniziale da 930 a 900 m/s, davano anche i cannoni da 203/53 ed anima sfilabile degli incrociatori pesanti Zara e Bolzano, costruiti nel 1929. Essi tuttavia risultarono migliori – quanto ad elevazione (45°), al caricamento dei proietti e alla celerità di tiro – al Trieste e al Trento, i cui 203/50 con anima fissa, risalenti al 1924, risultavano molto lenti al tiro, poiché le torri binate avevano i due pezzi strettamente vincolati tra di loro, e determinavano dispersioni molto rilevanti. Inoltre possedevano telemetri molto vecchi, che si dimostrarono nelle misurazioni al tiro molto imprecisi. Fermo restando la bontà del materiale e delle strumentazioni tecniche delle artiglierie da 381 m/m, possiamo concludere sostenendo che i maggiori difetti in esse riscontrati in fase di tiro di precisione erano da ricercare, oltre che sulle cariche di lancio, anche sulla scelta dei parametri richiesti all’industria in fase di progetto e di costruzione del materiale. La causa, ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo che per un certo periodo di tempo, nel 1942, comandò la IX Divisione Navale, costituita dalle corazzate “Littorio”, “Vittorio Veneto” e “Roma”, “era dovuta alla eccessiva tolleranza consentita dal peso dei proietti, per i quali si ammetteva un’approssimazione media di circa l’uno per cento, il che produceva una variazione di velocità iniziale dell’ordine di 3 metri per le velocità intorno ai 900 m/s, quali erano quelle da noi adottate”. Per i 381 ciò corrispondeva alla distanza di 27.000 metri, ed uno scarto di gettata di almeno 160 metri: se una salva partiva con qualche proietto di peso approssimato per eccesso e qualche altro approssimato per difetto si aveva un’apertura minima di 320 metri. Ovviamente, in caso di strettissimi controlli di qualità, nel caso di una salva composta da proietti tutti uguali essa sarebbe risultata molto raccolta, sempre che non si dovesse tenere conto di altri problemi come l’accelerata usura delle canne, vibrazioni, collegati meccanici, ecc. del sistema nave per il quale sarebbe stato necessario altrettanto rigore nelle tolleranze e nelle prove di accettazione. La grande apertura media delle salve facilitava certamente il cosiddetto centramento del tiro, purché fosse possibile ed efficace l’ osservazione a grandi distanze, ma la variabilità dell’apertura complicava il problema di mantenerlo centrato, soprattutto on bersagli in rapido movimento e su rotte variabili ed aleatorie. Analoghe differenze tra il peso delle cariche producevano altre perturbazioni le quali, combinate con tutte le altre cause di dispersione, rendevano irregolare ed eccessivamente elevata l’apertura della salva intorno al suo valore medio”. Aggiungo, a questa sintesi, che alcuni dati, o meglio riferimenti, apparsi successivamente non in pubblicazioni navali ma in articoli o saggi sull’ industria dell’epoca, farebbero apparire che le tolleranze reali, di accettazione, del munizionamento – forzate dalle lobbies industriali ed anche in un contesto di speculazione/corruzione – superavano largamente i limiti di specifica, aggravando la già negativa esposizione del Fioravanzo. La stessa lunga trattazione precedente sulla produzione all’ estero di una artiglieria navale italiana, il 406/50 sovietico, oltre che ricordare un esperimento poco conosciuto, è riportata per dimostrare che obiettivamente esistevano problemi (e concetti) progettuali tipici italiani che influirono sulla gittata, la precisione e la dispersione, e quindi sull’ efficacia del tiro e l’affidabilità delle artiglierie navali italiane. A prescindere dai problemi di scarsa qualità del munizionamento che potremmo riscontrare ed “accettare” per quelli che erano tanto nel caso italiano quanto nel caso sovietico, ritengo significativo che anche nel caso del 406/50, in un differente contesto, di prova, certamente più favorevole e stabile di quello di una nave, si siano riprodotte le stesse criticità degli altri grossi calibri italiani. Significativo per il giudizio negativo sulla dispersione tramandato in forma netta, anche se mancano statistiche, mancano esperienze di torre multipla, mancano dati – estremamente significativi – sui colpi non partiti e sull’ affidabilità di un sistema mai completato. Il giudizio abbastanza negativo riguarda quindi la canna, e la sua balistica interna. La storia navale, per le nuove leve che si affacciano sugli scenari ed a distanza degli avvenimenti dovrebbe concentrarsi sulla ricerca dei “perché” e dei “come”, lasciando maggiore spazio alla tecnica che alla cronaca degli avvenimenti ed addirittura alle stesse statistiche, a volte manipolabili per la mancanza di dati omogenei. Considero pretestuoso trincerarsi ancora sulla ricerca di qualche dato statistico sull'attività dei grossi /medi calibri dell'USN e della RN : soffermarsi su quanti colpi siano stati sparati e quanti abbiano raggiunto il bersaglio, compresi risultati ottenuti in fase addestrativa, magari considerando le intere flotte e l'intera guerra e confrontare il risultato finale con i dati italiani, spesso incompleti e certamente non omogenei, mi sembra eccessivo e fuorviante, come lo stesso rischio di fissarsi su singoli episodi che possono essere dovuti anche a circostanze casuali o, perché no, alla fortuna. il fatto che il rateo italiano sia prossimo a zero va a nostro detrimento, qualsiasi cosa abbiano fatto gli altri, ne è corretta la sola ricerca di colpevoli e meno la ricerca di riabilitazioni. Torre trinata da 152/55 e torri stabilizzate da 90/55 aa su una corazzata classe Littorio Non dimentichiamo che le scelte tecniche, nel ventennio e nel periodo autarchico non erano solo in testa alla Regia Marina, ed è noto come le lobbies industriali avessero rapporti diretti con gli organi decisionali, del Governo e del Regime, spesso in contrasto con gli organi tecnici della forza armata (al pari di altre FFA). Non è questa la sede per discutere di queste divergenze, e neppure di certe “discrepanze” all’ interno della stessa RM, ma la interessata confusione in proposito ha certamente nociuto all’ operatività, contribuito sui risultati finali e sulla mancanza di materiali idonei. Le scelte, non solo degli organi tecnici della Regia Marina , portarono a soluzioni “di immagine e proiezione”, tra le quali possiamo certamente includere quelle di costruire artiglierie previlegiando quantità e prestazioni immediate rispetto ad affidabilità e durata, e previlegiando la gittata, quindi un elevato rapporto tra la lunghezza della canna e il suo calibro per renderla capace di sparare il più lontano possibile proietti di notevole peso, a cui era impressa alta velocità iniziale per mezzo di cariche di lancio di grande potenza propellente. Conseguenze erano una maggiore vibrazione della canna, e quindi un aumento della dispersione delle salve oltre una maggiore usura dell’anima dei pezzi, già deboli per l’indisponibilità sul mercato nazionale di acciai di elevate caratteristiche, tutti fattori che finivano per influenzare ancora più negativamente la precisione e la continuità del tiro, specialmente durante le fasi di fuoco condotte a ritmo accelerato e di lunga durata. Malgrado numerose discussioni in merito all’ elevazione ed alla gittata dei pezzi di grosso calibro e medio calibro, l’esperienza di guerra ha messo in luce che sparando con grande elevazione, e quindi grande tempo in aria dei proietti, il tiro non sia stato in generale efficace (cioè con una ragionevole possibilità di colpire) mentre maggiore precisione è stata riscontrata in ingaggi con elevazione minore di 30 gradi. Tuttavia, ad alte elevazioni e con buona cadenza poteva risultare efficace il tiro di saturazione, purché la dispersione non fosse eccessiva (il complesso delle difficoltà e carenze ed i valori noti di quella italiana portano alla valutazione di una probabile dispersione circolare di una bordata, alla massima portata, da 1800 m ad addirittura 5400 m, valori per i quali non si parla più di probabilità di centrare un bersaglio ma di grandissima aleatorietà, anche nel caso, verificato, che l’ apertura del fuoco avvenisse abbastanza sopra il bersaglio . Il problema del tiro navale e di altri aspetti della guerra appena conclusa, compresi gli scarsi successi, o l’apparente scarso impegno della Regia Marina, è stato al centro di accese polemiche ed accuse sin dal primissimo dopoguerra. Pochi ormai si ricordano gli scontri, e le pubblicazioni, che spostarono le problematiche in aule giudiziarie. Si cominciò a parlare presto di tali temi, sia con le pubblicazioni di ricordi personali sia con le prime edizioni dell’USMM, mentre già nel 1956/1960 si apri un interessante foro con la rivista “Le Vie del Mare” di Aristide Bosi ed i lavori di Giorgerini e Nani dove si cercò di avviare un’analisi comparativa e serena, lontana da velleità di compiacere e compiangere appassionati nostalgici, orientata come versione addomesticata dei fatti per alleviare dolori ancora recenti. la linea elegante e pulita delle torri trinate da 381/50 Altri autori, successivamente e con maggiori dati a disposizione, da Santoni a Bagnasco, giunsero sino agli 90 del secolo scorso alle stesse conclusioni. L’apertura di archivi permise alla fine degli anni 70 di passare da cronache e resoconti personali ad analisi più tecniche ed obbiettive dei fatti, senza peraltro mai giungere a conclusioni condivise e irrefutabili: oggi non solo è possibile, ma si dovrebbe, affrontare la storia navale della seconda guerra mondiale anche da quest’ angolo di visione, con maggiore preparazione e strumenti di ricerca e valutazioni più attendibili grazie alla gran massa di dati che stanno ancora emergendo aprile 2016 Iscandar, Nereo Castelli and Incles 3 Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Francesco Mattesini Posted May 20, 2016 Report Share Posted May 20, 2016 Bellissimo e interessante. Complimenti Francesco Mattesini Quote Link to comment Share on other sites More sharing options...
Recommended Posts
Join the conversation
You can post now and register later. If you have an account, sign in now to post with your account.