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Nel 75° Anniversario della Battaglia di Mezzo Giugno 1942


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75° Anniversario

 

LA BATTAGLIA AERONAVALE DI MEZZO GIUGNO

 

Il contrasto delle forze aeronavali italo-tedesche alle Operazioni britanniche “Harpoon” e “Vigorous” - 12-16 giugno 1942

 

Francesco Mattesini

 

            Nella terza decade di marzo 1942, soltanto due dei quattro piroscafi del convoglio M.W. 10 (operazione M.G. 1), partiti da Alessandria  erano riusciti a raggiungere il porto maltese della Valletta, superando il blocco della flotta italiana. Questa impegnandosi il giorno 22 nel Golfo della Sirte con la corazzata Littorio (ammiraglio di squadra Angelo Iachino), gli incrociatori pesanti Gorizia e Trento, l’incrociatore leggero Bande Nere e otto cacciatorpediniere, affrontando un gruppo navale britannico di  scorta al convoglio, costituito dai quattro incrociatori leggeri Cleopatra (contrammiraglio Philip Vian), Euryalus, Dido, Penelope, dall’incrociatore contraereo Carlisle, e sedici cacciatorpediniere, non aveva saputo imporre al nemico la propria superiorità di forze. Tuttavia l’operazione britannica, anche a causa dell’intervento navale italiano, che ritardando l’arrivo a Malta del convoglio, previsto per la notte tra il 22 e il 23 marzo, aveva agevolato l’indomani, in ore di luce, gli attacchi della Luftwaffe, si era conclusa con un quasi completo fallimento.
          Gli attacchi degli aerei tedeschi del II Fliegerkorps (generale Bruno Loerzer) di base in Sicilia, dopo aver colpito ed affondato presso Malta i piroscafi Clan Campbell e Breconshire del convoglio M.W. 10, nei giorni seguenti all’arrivo alla Valletta avevano affondato nel porto gli altri due piroscafi, il Pampas e il Talabot, mentre ancora si trovavano sotto scarico. Inoltre, per varie cause, nel corso dell’operazione M.G. 1 erano stati affondati tre cacciatorpediniere: Heythrop dal sommergibile tedesco U652, Southwold da mine tedesche posate dalle motosiluranti della 3a Flottiglia, e Legion dai bombardieri del II Fliegerkorps. Altri tre cacciatorpediniere (Havock, Lively, Kingston), assieme all’incrociatore Cleopatra, avevano riportato danni più o meno gravi, causati dal tiro navale italiano, nella battaglia che, essendosi svolta con pessime condizioni atmosferiche, aveva agevolato alle navi di scorta britanniche la difesa del convoglio.
Dopo questo disastro, il Comitato dei Capi di Stato Maggiore britannici a Londra aveva constatato quanto fosse importante e vitale per la sopravvivenza di Malta, prendere le più energiche misure.
         Infatti, le critiche condizioni in cui venne a trovarsi Malta nel corso del mese di aprile 1942, in cui l’offensiva del II Fliegerkorps, condotta contro gli obiettivi dell’isola con sette gruppi da bombardamento e cinque da caccia con una massa di oltre quattrocento aerei, raggiunse la maggiore intensità distruttiva, indussero alcune alte personalità politiche e militari britanniche a visitare l’isola e dopo colloqui con il Governatore, generale William Dobbie, esse constatarono che era di importanza vitale far passare un convoglio in maggio. Ma per far questo era necessario far prima arrivare a Malta il maggior quantitativo di aerei da caccia e munizioni, per rinforzarne la difesa, che in quel momento vedeva disponibili soltanto una quindicina di caccia moderni Spitfire V, arrivati nel corso del mese di marzo con decollo in mare dalla portaerei Eagle, che si trovava a Gibilterra.
          Era inoltre indispensabile far giungere con il convoglio alcuni dragamine per tenere sgombri gli accessi al porto della Valletta, e una petroliera con benzina avio perché le riserve dell’isola, nelle misere condizioni in cui si trovavano in quel momento, soggette ad un rigoroso razionamento, sarebbero bastate al massimo entro l’agosto. Se non avesse ricevuto, il prima possibile, gli aiuti richiesti urgentemente, Malta si sarebbe ormai trovata nelle condizioni di non poter disporre dei mezzi per continuare a combattere, e sotto la minaccia di doversi arrendere per l’assottigliamento delle scorte di munizioni, di carburanti e, soprattutto, dei viveri necessari per far sopravvivere una popolazione di oltre 200.000 persone e una guarnigione di circa 32.000 uomini.
         Il Comitato dei Capi di Stato Maggiore britannici, tenendo in considerazione che l’isola fortezza rappresentava il fulcro della loro  strategia nel Mediterraneo e che la sua perdita avrebbe portato anche a quella dell’Egitto e del Canale di Suez, esaminata la situazione generale e gli impegni della Royal Navy sugli oceani – aumentati considerevolmente dopo l’entrata in guerra del Giappone e per trasportare nella Russia settentrionale gli aiuti di armi ed equipaggiamenti promessi all’Unione Sovietica – arrivarono alla conclusione che sarebbe stato impossibile avviare in maggio un convoglio di rifornimento da Gibilterra a Malta. E questo perché, nelle descritte condizioni di difficoltà per mancanza di mezzi, non potevano permettersi di farsi danneggiare navi portaerei e corazzate, esponendole ad attacchi da parte delle potenti forze aeree che l’Asse disponeva in Sardegna e in Sicilia; per non parlare della minaccia dei sommergibili tedeschi che arrivati nel Mediterraneo a partire dal settembre 1941, avevano già causato alla Royal Navy le maggiori perdite, affondando, tra l’altro: la corazzata Barham, la portaerei Ark Royal, gli incrociatori Galatea e  Naiad e cacciatorpediniere Heythrop e Jaguar, oltre a naviglio minore e ausiliario e a parecchie navi mercantili.
          Anche il progetto di inviare a Malta un convoglio da Alessandria fu scartato in quanto vi era la dichiarata convinzione che mancando una scorta potente, comprendente navi da battaglia e navi portaerei che in quel momento erano indisponibili perché impegnate nell’Artico e nell’Oceano Indiano, la flotta italiana lo avrebbe intercetto con grande spiegamento di forze, in condizioni da non poter ripetere  “il provvidenziale scampo del convoglio di marzo che fu principalmente dovuto alle condizioni del tempo”.
         Ciononostante i Capi di Stato Maggiore britannici non intendevano abbandonare l’isola assediata al suo destino, e come primi provvedimenti presi vi furono, il 10 maggio, il rafforzamento dei caccia Spitfire V – realizzato dal Mediterraneo occidentale tramite l’impiego della portaerei statunitense Wasp e della britannica Eagle dai cui ponti decollarono sessantaquattro Spitfire – e il contemporaneo invio di munizionamento, soprattutto contraereo, portato alla Valletta dal posamine veloce Welshman. Altri carichi di materiali urgenti furono trasportati a Malta da alcuni sommergibili. Uno di questi ultimi, l’Olympus, andò perduto l’8 maggio su uno sbarramento minato posato dalle motosiluranti tedesche della 3a  Flottiglia  all’entrata del Grand Harbour.
         A Londra vi era la speranza che con i magri aiuti inviati a Malta, l’isola potesse resistere almeno fino alla metà di giugno del 1942, epoca per la quale si sarebbe conosciuto l’esito dell’offensiva terrestre che l’Esercito britannico (8a Armata) avrebbe scatenato in Cirenaica. Nello stesso tempo, con il previsto miglioramento della situazione strategica nell’Oceano Indiano, e la prevista occupazione del Madagascar da realizzare alla fine di maggio (operazione “Ironclad”), si riteneva di poter inviare a Malta un convoglio scortato dalla corazzata Warspite e da tre grandi e moderne navi portaerei della Flotta Orientale (Indomitable, Illustrious  Formidabile), da far venire per l’occasione nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
         Era chiaro a Londra, ed anche nell’ambito dei Comandi britannici in Mediterraneo, che se il convoglio di giugno fosse fallito Malta sarebbe caduta senza ulteriore sforzo da parte delle forze dell’Asse; e fra le decisioni più impostanti prese per salvare l’isola – che non era più in grado di esercitare una forte pressione sulle rotte marittime dell’Asse con la Libia per le perdite navali subite e l’allontanamento di quelle ancora in grado di navigare – vi fu quella di dargli una guida più energica. Il Governatore, generale William Dobbie, logorato dopo due anni d’assedio, fu sostituito il 7 maggio dal parigrado visconte John Vereker (Lord Gort), decorato della Victoria Cross nella prima guerra mondiale e già comandante del corpo di spedizione britannico in Francia, fino all’evacuazione da Dunkerque. Lord Gorth si rese subito conto che occorreva svincolare i vari corpi combattenti dai rispettivi comandanti in capo del Medio Oriente così da dare a tutte le forze di Malta una direzione unica. Il suo suggerimento fu accettato e il 15 maggio, in seguito ad un cambiamento nella carica di Governatore, il generale Gort fu nominato Comandante Supremo delle Forze Armate e dell’Amministrazione Civile.
         Nei giorni che seguirono il piano che prevedeva di far arrivare a Malta un convoglio, fu sostituito dall’Ammiragliato britannico con la pianificazione di due operazioni separate, ma da realizzare simultaneamente, mettendole in movimento dalle estremità del Mediterraneo, allo scopo di costringere italiani e tedeschi a non concentrare tutte le loro forze aeronavali contro un solo obiettivo.  Secondo Londra, ciascuna delle due operazioni doveva svolgersi, con l’obiettivo di raggiungere Malta, accettando i più gravi rischi e senza troppo badare al conto da pagare in termine di perdite navali, di aerei e di uomini.
         Il piano adottato per la navigazione tra Gibilterra e Malta, che ebbe in codice il nome convenzionale di Harpoon, fu programmato con le stesso modalità delle operazioni Substance e Halberd, effettuate con successo nella terza decade dei mesi di luglio e settembre 1941, e che da allora non erano state ripetute essendo stato più agevole, in quattro occasioni, il rifornimento di Malta da levante. Movimenti che tra la fine del 1941 e il mese di marzo 1942 erano stati agevolati dalle possibilità di disporre della scorta aerea assicurata dal possesso degli aeroporti avanzati della Cirenaica, conquistati dall’Esercito britannico nel mese di dicembre  durante l’operazione  Crusader. 
          L’operazione Harpoon prevedeva di inviare alla Valletta un convoglio di sei navi mercantili  che per coprirne la destinazione ebbe la sigla fittizia di W.S. 19/Z, ossia dei convogli Winston Speciale (W era il nome di Churchill che ne venne a conoscenza solo dopo la guerra), diretti dall’Inghilterra a Suez e in India, per la rotta del Capo di Buona Speranza. Il convoglio, con un carico di 43.000 tonnellate. di approvvigionamenti e carburanti, doveva salpare direttamente dalla Gran Bretagna. Le navi mercantili, dopo essersi concentrate nell’Estuario del Clyde, nella Scozia sudoccidentale, dovevano prendere il mare scortate da una formazione della Home Fleet, che comprendeva i grandi incrociatori Kenya e Liverpool. Nell’entrare nel Mediterraneo, la protezione doveva essere rinforzata con l’aggiunta di unità pesanti che si trovavano a Gibilterra a disposizione del Comando del Nord Atlantico, e che comprendevano la vecchia corazzata Malaya, le anziane navi portaerei Eagle e Argus e gli incrociatori Charybdis e Cairo.
         La seconda operazione, chiamata Vigorous, consisteva nel mettere in movimento verso l’isola un convoglio di undici navi mercantili, riuniti in vari porti del Mediterraneo orientale – Haifa, Porto Said e Alessandria –  scortato da un complesso misto di unità leggere e sottili della Mediterranean Fleet e della Flotta dell’Oceano Indiano, comprendente  otto incrociatori, ma purtroppo, e ne vedremo più avanti il motivo,  senza nessun corazzata o nave portaerei.
         Per assicurare al duplice movimento il massimo dell’appoggio aeronavale, ai primi di giugno la R.A.F. inviò a Malta tramite la portaerei Eagle altri cinquantacinque Spitfire V, e alla vigilia delle due operazioni portò la quantità di aerei disponibili sugli aeroporti dell’isola a circa duecento, mediante rinforzi di caccia a lungo raggio Beaufighter, di ricognitori a lungo raggio Baltimore, di bombardieri medi Wellington e di veloci aerosiluranti Beaufort. Nel contempo, tenne pronti in Egitto tutti i velivoli del 201° Gruppo di Cooperazione Aeronavale, a cui si aggiunse un reparto di bombardieri pesanti statunitensi B. 24 “Liberator”, denominato distaccamento HALPRO (Halverson Provisional Detachment dal nome del Comandante colonnello Harry A Halverson), che inizialmente diretto in India, da pochi giorni era stato trattenuto nel Medio Oriente. Il reparto fu impiegato per la prima volta la notte del 12 giugno per bombardare gli impianti petroliferi di Pleosti, in Romania, dove si produceva il combustibile vitale per lo sforzo di guerra della Germania e dell’Italia. Missione, la prima svolta dall’Aviazione statunitense sul suolo dell’Europa, portata a compimento con tredici velivoli, che ebbe scarsi effetti materiali, e la perdita di cinque B. 24, uno abbattuto sull’obiettivo e quattro costretti al rientro dalla missione ad atterrare in Turchia restandovi internati.
          Il compito delle forze aeree era soprattutto quello di contrastare una eventuale uscita della flotta italiana per dirigere contro i convogli britannici, partendo dalle basi di Taranto, Messina, Cagliari e Palermo. Per lo stesso motivo la Royal Navy ritenne necessario di pianificare un forte sbarramento di sommergibili. Pur non potendo ancora disporre della base della Valletta –  essendo stata evacuata della 10a  Flottiglia alla fine di aprile per sottrarre i sommergibili agli attacchi degli aerei tedeschi che in pochi giorni avevano affondato tre unità subacquee, e perché aveva l’imboccatura del porto insidiata dalle mine posate intensamente dalle motosiluranti germaniche della 3a Flottiglia – la Royal Navy attuò nel Mediterraneo Centrale due concentramenti subacquei. Ciò comporto di inviare in agguato nove sommergibili delle squadriglie 1a  e 10a di Alessandria e Haifa (Proteus, Thorn, Taku, Thrasher, Porpoise e Una, Uproar, Ultimatum e Umbra) nel basso Ionio, dislocati su due linee di sbarramento all’altezza delle coste meridionali della Grecia e di Creta, e altri quattro sommergibili della 8a Flottiglia di Gibilterra (Safari, Unbroken, Unison e Unruffled ) nel basso Tirreno, nel tratto di mare tra la Sicilia e la Sardegna.
         Secondo quanto fissato dai pianificatori della Harpoon, era stato previsto di far accompagnare le sei navi mercantili del convoglio W.S. 19/Z da due gruppi ben distinti di unità navali di scorta, al comando del contrammiraglio Alban T.B. Curteis, Comandante in seconda della Home Fleet, che alla partenza da Scapa Flow (Isole Orkadi), per trasferirsi a Clyde, dove si erano concentrate le navi del convoglio e parte della scorta, si trasferì dalla corazzata Rodney sull’incrociatore Kenya. L’insieme delle forze navali a disposizione di Curteis ricevette la denominazione  di Forza T.
         Il nucleo principale delle unità di scorta della Forza T, il gruppo navale di protezione denominato Forza W, e che includeva la corazzata Malaya (capitano di vascello S.W.A. Waller) e le portaerei Eagle e Argus, tre incrociatori, e otto cacciatorpediniere, doveva spingersi  da Gibilterra fino all’ingresso del Canale di Sicilia. Quindi, una volta arrivata, all’altezza di Biserta, nel tardo pomeriggio del 14 giugno, la Forza W, con lo stesso vice ammiraglio Curteis, doveva invertire la rotta per portarsi fuori dal raggio d’azione degli aerei dell’Asse dislocati in Sardegna. Le navi mercantili del convoglio WS. 19/Z, accompagnate dalle unità del gruppo di scorta diretta, denominato Forza X e al comando del facente funzione di capitano di vascello Cecil Campbell Hardy, dovevano proseguire la navigazione per Malta, transitando nel corso della notte sul 15 giugno per il Canale di Sicilia, per poi costeggiare la costa della Tunisia e dirigere per Malta, passando a sud di Pantelleria.
          La Forza X era costituita, per eccesso di sicurezza, dal solo piccolo modesto incrociatore contraereo Cairo – la nave del comandante Hardy – risalente alla prima guerra mondiale e rimodernato nel 1935, da cinque cacciatorpediniere di squadra e quattro cacciatorpediniere di scorta. A queste dieci navi si aggiungevano quattro dragamine di squadra e sei motolancie che da Gibilterra erano destinate a raggiungere Malta per esercitarvi la bonifica dalle mine dell’Asse che infestavano le acque intorno all’isola.
         Il convoglio WS. 19/Z era costituito da cinque piroscafi da carico, i britannici Burdwan, Orari e Troilus, l’olandese Tanimbar, lo statunitense Chant, e da una petroliera veloce, la Kentucky richiesta dal Primo ministro  Winston Churchill per la sua forte velocità di sedici nodi e concessa in prestito dal Presidente statunitense Delano Roosevelt alla Marina Mercantile britannica. La Kentucky, partita dagli Stati Uniti, fu inviata direttamente a Gibilterra, dove arrivò il 12 giugno con un carico di 14.100 tonnellate di combustibili, costituito soprattutto dalla benzina per gli aerei di Malta. Commodoro del convoglio, imbarcato sul piroscafo Troilus, era il capitano di fregata J.P. Pilditch.
          Tutte le navi mercantili, tranne naturalmente la Kentucky, salparono da Clyde la sera del 4 giugno (inizio delle partenze alle ore 22.00), assieme alle unità di scorta della Home Fleet, comprendente i grandi incrociatori della 18a Divisione Kenya e Liverpool e i dieci cacciatorpediniere Onslow, Marne, Matchless, Bedouin, Icarus, Escapade, Blankney, Middleton, Badsworth e Kujawiak, quest’ultimo polacco. Passando a nord dell’Irlanda e spingendosi molto ad ovest dalle Isole britanniche, per poi procedere con rotta sud transitando al largo della penisola iberica, il convoglio WS. 21/S, con il suo gruppo navale di scorta, nella notte tra l’11 e il 12 giugno, navigando alla velocità di dodici nodi, superò a luci oscurate lo Stretto di Gibilterra, ed entrò nel Mediterraneo, dove fu raggiunto dalla cisterna Kentucky.
          Il mattino dell’indomani sopraggiunse da Gibilterra il nucleo pesante di scorta, comprendente la  corazzata Malaya, le portaerei Argus e Eagle (che imbarcavano ventidue aerei da caccia Hurricane e Fulmar), gli incrociatori Charybdis e Cairo, il posamine veloce Welshman e i sette cacciatorpediniere Antelope, Partridge, Ithuriel, Vidette, Westcott, Wishart, Wrestler. Per guidare questi ultimi, quale nave comando della 17a Flottiglia Cacciatorpediniere, l’Onslow (capitano di vascello H.T. Amstrong) fu sottratto alla Forza X, per andare ad inserirsi organicamente nella Forza W assieme all’Icarus e Escapade, che furono sostituiti dal Partridge e dall’Ithuriel nella Forza X, a cui si aggiunse, quale nave comando, l’incrociatore contraereo Cairo.
          La Forza X, per scortare il convoglio a Malta nel secondo tratto della navigazione, rimase pertanto a disporre del Cairo e dei nove cacciatorpediniere; cinque di squadra della 11° Squadriglia,  Bedouin (capitano di vascello G.B. Scurfield),  Marne,  Matchless,  Ithuriel, Partridge;  e quattro di scorta della 12a Squadriglia, Blankney(capitano di corvetta P.F. Powlett),  Badsworth, Middleton e Kujawiak.
          Nel contempo erano sopraggiunti i quattro dragamine di squadra della 17a  Flottiglia Hebe (capitano di corvetta. G. Mowatt), Hythe, Rye e Speedy e le sei motolance della 6a Flottiglia ML 462 (capitano di corvetta. EJ. Stowlger), 121, 134, 135, 168 e ML 459. Queste navi, tutte fornire di apparati per il dragaggio, erano destinate a raggiungere Malta per esercitarvi la bonifica dalle mine dell’Asse che infestavano le acque intorno all’isola. Durante la navigazione, le motolance, che per le modeste caratteristiche degli scafi disponevano di un motore a benzina, per la loro minore velocità si mantennero a poppa delle navi mercantili, che una volta entrate nel Mediterraneo avevano aumentato l’andatura a tredici nodi.
          Nel corso della giornata del 13 giugno, in una zona situata a sud delle Isole Baleari, fu distribuito il carico di nafta a quei cacciatorpediniere della Forza T che, provenienti da Clyde, non avevano avuto l’occasione di entrare a Gibilterra per rifornirsi, e che pertanto fecero il pieno dalla cisterna di squadra Brown Range, che era scortata dalle corvette Coltsfoot e Geranium. Questa piccola formazione, salpata da Gibilterra nella notte del giorno 11,  si chiamava Forza Y.
          In quel momento la Forza T del vice ammiraglio Curteis era al completo dell’organico, e costituita dalle seguenti trentanove unità: sei navi mercantili, una nave da battaglia, due navi portaerei, quattro incrociatori, un posamine veloce, diciassette cacciatorpediniere, quattro dragamine di squadra, sei motolance, e per il rifornimento in mare una cisterna ausiliaria con due corvette di scorta.
 

***

 
          Per rendersi conto della vastità e dello scopo delle forze impiegate  dalle operazioni britanniche, che avevano attraversato a luci oscurate lo Stretto di Gibilterra, a partire dal 12 giugno Superaereo e l’O.B.S. avevano disposto il più ampio servizio di ricognizione strategica in tutto il Mediterraneo occidentale, con la partecipazione anche degli idrovolanti dell’Aviazione Ausiliaria della Marina (Ricognizione Marittima).
            In questa attività di ricognizione senza lacuna e mantenimento del contatto, il II Fliegerkorps partecipò nel corso della mattinata e del pomeriggio del 12 giugno con tredici Ju 88D della 1a e 2a Squadriglia del 122° Gruppo Ricognizione Strategica di Trapani (1 e 2(F)/122), che per le loro missioni a lungo raggio decollavano dall’aeroporto di Cagliari Elmas, in Sardegna. L’Aeronautica italiana della Sardegna, a partire dalle ore 14.00 e fino a dopo il tramonto del sole, partecipò alle medesimi missioni a lungo raggio con cinque Cant. Z. 1007 bis del 51° Gruppo Ricognizione Strategica, di base a Villacidro. Anche nella giornata del 13 gli Ju. 88D delle due squadriglie da ricognizione tedesche mandarono in volo undici Ju. 88, e fu uno di questi velivoli, della 1(F)/122, che alle 09.00 scoprì la formazione navale britannica avanzante su più gruppi in lat. 38°17’N, long. 01°27’E, e la segnalò comprendente una nave da battaglia, due navi portaerei e quattro incrociatori.
          Questo primo avvistamento da parte del ricognitore tedesco, che era stato percepito dal radar dell’incrociatore Cairo, e a cui si aggiunse la  successiva presenza di aerei francesi e spagnoli impegnati a tenere sotto controllo la formazione navale britannica, tenne in allarme le navi portaerei Eagle e Argus. Per vigilare contro i ricognitori, e temendo il verificarsi di attacchi di bombardieri e aerosiluranti, le due portaerei mantennero in volo pattuglie di caccia, impiegando gli Hurricane dell’801° Squadron e della 213a Flight (squadriglia)  ad alta quota e i Fulmar dell’807° Squadron a bassa quota.
          Da questa vigilanza si verificarono due intercettazioni contro altrettanti ricognitori. La prima riguardò uno Ju 88D della 1(F)/122 , che attaccato da due caccia Hurricane dell’801° Squadron della Eagle, guidati dai sottotenenti di vascello G.W. Parish e A.G. Blanchared, e rimasto alquanto danneggiato, costrinse il pilota, capitano Nikolaus Büsen, ad effettuare un atterraggio di emergenza in Algeria. Andò peggio ad un ricognitore Cant. Z. 1007 bis della 212a Squadriglia del 51° Gruppo, che  attaccato in serata da un  Hurricane della 213a  Flight della Eagle, pilotato dal tenente di vascello T.J.A. King-Joyce, fu costretto ad ammarare. Il pilota del trimotore, tenente Gerolamo Piccioni, e i cinque membri del suo equipaggio furono raccolti da un cacciatorpediniere britannico.
          Nel contempo il servizio antisom intorno alla Forza T era svolto dagli Swordfish della Argus, mentre quello strategico era realizzato dalla R.A.F. con gli idrovolanti di base a Gibilterra, i Catalina del 202° Squadron, a cui erano stati aggregati alcuni Sunderland del 10° Squadron Australiano. La loro attiva vigilanza portò il Sunderland del maggiore pilota R.B. Barrage ad avvistare ed attaccare presso le coste della Sardegna il sommergibile italiano Otaria (tenente di vascello Alberto Gorini) che il mattino del 13 giugno si stava trasferendo nella zona d’agguato assegnata al largo delle coste algerine. Tra l’aereo e il sommergibile, che fu mancato dalle bombe da 250 libbre sganciate contro di esso, si verificò uno scambio di colpi di mitragliera senza conseguenze per entrambi, sebbene alcuni proiettili  avessero colpito il Sunderland, ed altri causato un ferito a bordo dell’Otaria.
          Continuando a dirigere con rotta levante (270°) verso il Canale di Sicilia, nel pomeriggio del 13 la Forza T fu avvistata dal piroscafo spagnolo Cabo Prior a circa 60 miglia a nord-nordovest di Orano, e la notizia, che confermava l’inoltro della formazione navale nemica verso il Canale dio Sicilia, fu subito portata dai servizi d’informazione a conoscenza dei comandi dell’Asse.
         Contemporaneamente agli avvenimenti descritti, nel Mediterraneo orientale si metteva in movimento l’operazione Vigorous. Trovare una scorta per le undici navi da carico che facevano parte del convoglio MW. 11 non era stato un compito facile. Fino all’ultimo l’ammiraglio Henry Harwood, nuovo Comandante della Mediterranean Fleet, aveva sperato di poter disporre di una delle tre portaerei moderne della classe “Illustrious”, presenti nell’Oceano Indiano, ma poiché questo non fu possibile dovette accontentarsi di ricevere quattro incrociatori leggeri e dieci cacciatorpediniere che giunsero in rinforzo dalla Flotta Orientale attraverso il Canale di Suez. In tal modo, pur non potendo disporre di unità pesanti per fronteggiare un eventuale combattimento con la flotta italiana, Harwood riuscì a mettere insieme un gruppo di scorta abbastanza forte, potendo contare sui sette incrociatori Cleopatra, Dido, Euryalus, Hermione, Arethusa, Newcastle, Birmingham, a cui si aggiungevano l’incrociatore contraereo Coventry, ventisei cacciatorpediniere e tredici unita minori, inclusa la Centurion. Quest’ultima era una vecchia ex corazzata che, essendo stata attrezzata a nave contraerea, e adeguatamente camuffata con torri e cannoni di legno, doveva servire per far credere agli italiani la presenza di una vera nave da battaglia moderna del tipo “King Gorge V”.
          A guidare in mare l’intero complesso navale, fu destinato, a bordo del Cleopatra, il comandante della 15a Divisione Incrociatori contrammiraglio Philip Vian, che era considerato il vincitore della Seconda Battaglia della Sirte del 22 marzo 1942.
         Nel progettare l’operazione Vigorous molto conto era stato fatto sull’offensiva che l’8a  Armata  britannica avrebbe scatenato per riconquistare gli aeroporti avanzati della Ciranaica. Ma nella terza decade di maggio il generale Erwin Rommel, comandante dell’armata corazzata italo-tedesca in Nord Africa, aveva attaccato per primo ed il passaggio del convoglio MW. 11 venne a coincidere proprio con il momento cruciale di una grande battaglia terrestre il cui andamento era sfavorevole ai britannici. In queste condizioni venne a mancare gran parte dell’appoggio aereo promesso dalla R.A.F. del Medio Oriente che, essendo costretta ad impegnarsi in appoggio all’Esercito, poté dedicare alla Vigorous soltanto pochi squadron di velivoli per la ricognizione, la scorta e l’attacco.
         Fortunatamente per i britannici riuscì un attacco di Commandos contro gli aeroporti di Creta, con l’impiego di guastatori sbarcati prima e durante l’operazione dai sommergibili ellenici Triton e Papanikolis e da alcune motosiluranti. I sabotatori riuscirono a distruggere o danneggiare gravemente non meno di ventotto aerei tedeschi, sei autocarri, circa 100.000 litri di benzina e quattrocento bombe. La più grave perdita fu lamentata in tale circostanza dal 1° Stormo Sperimentale (I./LG.1), con la distruzione sull’aeroporto di Maleme di otto dei suoi bombardieri Ju 88-A4 del I./LG.1 e uno del II./LG.1, mentre a Kastelli andarono distrutti due Ju 88D della Squadriglia da ricognizione 2.(F)/123.
          Ciononostante, grazie all’ottima organizzazione della Luftwaffe, gli Ju 88 del I./LG.1 (capitano Joachim Helbig) vennero prontamente rimpiazzati con velivoli del medesimo tipo, inviati dal IV/.LG.1, il gruppo di addestramento del 1° Stormo Sperimentale di base a Salonicco, in Grecia. Non riuscì invece un altro attacco di guastatori britannici pianificato contro gli aeroporti della Libia, poiché gli italiani, tramite il loro Servizio Informazioni Militari (S.I.M.) che aveva copia del cosiddetto “Codice nero” usato colonnello Frank Bonner Fellers dall’ambasciata statunitense del Cairo con Washington, ne vennero a conoscenza, mettendo in allarme tutto il settore della Cirenaica, e non concedendo alle camionette dei “Topi del deserto” (Long Range Desert Group), che arrivavano dall’Oasi di Cufra, il necessario spazio di manovra per raggiungere gli obiettivi principali, gli aerosiluranti italiani.
          L’unico risultato conseguito ai LRDG fu quello di riuscire a penetrare sull’aeroporto tedesco di Benina, presso Bengasi nella notte sul 13 giugno, dove applicando ai velivoli bombe ritardate, l’attacco portò alla distruzione di quattro aerei  (un Ju.88, un Ju.87, un Bf.110 e un Ju.52) e di dieci motori, e all’incendio di un aviorimessa officina. L’attacco fu guidato dallo stesso comandante dei LRDG, maggiore David Stirling, che poi riuscì a rientrare a Cufra.
         La riunione del convoglio M.W. 11 e della sua scorta fu segnalata il pomeriggio del 13 giugno allargo di Alessandria da un ricognitori tedesco Ju. 88 della 12a Squadriglia del 1° Stormo Sperimentale (12./LG.1), a disposizione del Fliegerfügrer Africa, e i Comandi dell’Asse, già informati dagli agenti dei servizi d’informazione in Spagna del transito per lo Stretto di Gibilterra, a fanali spenti, delle unità partecipanti all’operazione Harpoon, poterono organizzare per tempo le azioni di contrasto.
         Da parte dell’aviazione italiana e tedesca venne attuato un adeguato schieramento di reparti offensivi sugli aeroporti della Libia, di Creta e dell’Egeo, e un rafforzamento delle unità presenti in Sicilia e in Sardegna con nuovi velivoli fatti affluire dalle basi della penisola italiana, Nel contempo, fin dal giorno 12, Supermarina  aveva ricevuto dal generale Ugo Cavallero, Capo dello Stato Maggiore Generale delle Forze Armate italiane (Comando Supremo) il seguente tassativo ordine, emanato da Mussolini dopo un colloquio con l’ammiraglio Riccardi, Sottosegretario di Stato e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina:
 
         “Il 12 giugno 42. Duce ha disposto che la nostra Squadra prenda il mare per affrontare Forza H uscita stamane da Gibilterra. Quanto sopra, in seguito a consultazione che ho avuta con S.E. Riccardi. Ha soggiunto come considerazione che se le forze navali inglesi vengono verso il Mediterraneo centrale, le forze navali italiane non possono rimanere nei porti. Il consumo della nafta è quindi giustificato. Generale Cavallero.”
 
         Nel frattempo, nel Mediterraneo orientale, la sera del 13 giugno si verificarono i primi allarmi aerei per il convoglio dell’operazione Vigorous, denominato MW. 12, che aveva lasciato le basi suddiviso in tre sezioni. La sezione C, salpata da Porto Said e costituita da quattro navi mercantili scortate dall’incrociatore contraereo Coventry e da otto cacciatorpediniere tipo “Hunt”, precedeva le altre due sezioni, avendo ricevuto l’incarico di sopravanzare le altre due sezioni spingersi fino all’altezza di Alessandria per farsi avvistare, in modo da causare allarme negli italiani e costringere le loro navi a prendere il mare da Taranto con un certo anticipo, per fargli consumare il combustibile.
          Avvistata dai ricognitori del X Fluiegerkorps (generale Hans Geisler), la sezione MW.12/C fu attaccata dopo il tramonto del sole da velivoli da bombardamento decollati da Creta. Inizialmente gli Ju. 88 mandati all’attacco erano venti; ma di essi, nell’incombente oscurità, soltanto otto velivoli del 1° Gruppo del 54° Stormo Bombardamento (I./KG.54) rintracciarono il convoglio, e alle 20.08 lo attaccarono in picchiata guidati dal loro comandante di gruppo, capitano Georg Graf von Platen, riuscendo a danneggiare, con colpi vicini allo scafo, il piroscafo City of Calcutta, costringendolo a dirottare sul porto di Tobruch protetto dai  cacciatorpediniere di scorta Exmoor e Crome.
          Informata dell’attacco, Supermarina si rese conto che questo convoglio, formato da parecchi piroscafi e da una scorta molto numerosa, era il più importante per la sopravvivenza di Malta, e pertanto, agendo in base agli ordini del Duce, decise di intervenire, in entrambe le direzioni, disponendo:
        
          1°) – ad occidente, un ampio schieramento, con quattordici sommergibili, l’impiego notturno di Mas nel Canale di Sicilia; la partenza da Palermo, la sera del 14 giugno, della 7a Divisione Navale, con gli incrociatori leggeri Eugenio di Savoia  e Raimondo Montecuccoli, per trovarsi l’indomani all’alba a sud di Pantelleria, accompagnati da sette cacciatorpediniere, poi ridotti a cinque (Oriani, Ascari, Premuda, Vivaldi e Malocello) per sopraggiunte avarie alle macchine dello Zeno e del Gioberti;
        
          2°) ad oriente, uno schieramento di sette sommergibili e l’impiego, con partenze da Taranto e Messina, del grosso della flotta con le due moderne navi da battaglia della 9a Divisione Navale Littorio e Vittorio Veneto, gli incrociatori pesanti della 3a Divisione Navale Gorizia e Trento, gli incrociatori leggeri della 8a  Divisione Navale Garibaldi e Duca d’Aosta, e dodici cacciatorpediniere: Alpino, Aviere, Bersagliere, Camicia Nera, Corazziere, Geniere, Folgore, Freccia, Legionario, Mitragliere, Saetta e Antonio Pigafetta.
 
           Tuttavia il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina nel portare a conoscenza l’uscita delle navi dai porti per affrontare in nemico in entrambi i bacini del Mediterraneo, aveva specificato: “Intervento è subordinato possibilità protezione aerea”. In base ad accordi discussi e stabiliti da Supermarina con Superaereo e l’O.B.S., che fecero notare la scarsità degli aerei da caccia a disposizione, fu infine deciso che alla scorta della 7a Divisione Navale nella zona di Pantelleria avrebbe provveduto il Comando dell’Aeronautica della Sicilia, mentre a levante la scorta sarebbe stata assunta dai reparti tedeschi del X Fliegerkorps dislocati in Grecia e a Creta, rinforzati dai velivoli dei reparti scuola e addestramento che si trovano in Puglia. Furono anche programmate, con velivoli italiani e tedeschi, azioni di bombardamento sugli aeroporti di Malta, nelle notti tra il 13 e il 15 giugno, allo scopo, richiesto da Supermarina che temeva soprattutto l’intervento notturno degli aerosiluranti, di agevolare i movimenti delle forze navali italiane.
         Da parte della Marina germanica vennero inviati in agguato  a nord delle coste libico-egiziane sette U-boote della 29a  Flottiglia (U-77, U-81, U-205, U-431, U-453 e U 559)  e sei motosiluranti della 3a  Flottiglia (S-56, S-54, S-55, S-58, S-59 e S-60), queste ultime di base a Derna e concentrate a ovest di Tobruch.  
         Uno dei sommergibili, l’ U-77 (tenente di vascello Heinrich Schonder),  il mattino del  giorno 12 giugno silurò ed affondò il cacciatorpediniere di scorta britannico Grove (capitano di corvetta J.W. Rylands), che stava rientrando ad Alessandria dopo aver scortato un convoglio a Tobruch.  Secondo i piani della “Vigorous”, il Grove, dopo essersi rifornito ad Alessandria, avrebbe dovuto partecipare alla protezione dei piroscafi diretti a Malta, movimento che però non avrebbe potuto realizzare a causa di un incidente occorsogli a Tobruch che, per danni allo scafo riportati per urto sul fondale della rada, lo aveva costretto a ridurre la velocità a circa sei nodi.
 

***

 

           Nella notte la Forza T entrò nella zona d’agguato più occidentale dello sbarramento dei sommergibili italiani, due dei quali, l’Uarsciek e il Giada, individuate le navi britanniche dirette a levante in più colonne, manovrando in superficie le attaccarono a levante di Algeri.
          L’Uarsciek, che si trovava a 90 miglia a nord di Bougie, alle 01.20 del 14 giugno  lanciò di tre siluri contro le due sagome che apparivano più grandi e senza sovrastrutture; motivo per il quale il comandante del sommergibile, tenente di vascello Raffaello Allegri, ritenne fossero navi portaerei. Nella fase di disimpegno furono udite due esplosioni che dettero a bordo del sommergibile l’impressione che la portaerei fosse stata colpita.
          Poco più di tre ore dopo, Il comandante del Giada, tenente di vascello Gaspare Cavallina, avvistata la Forza T a circa 50 miglia a nord di Capo de Fer e individuata la portaerei Eagle, manovrando in emersione l’attaccò alle 05.05 lanciando, da una distanza di 2.500 metri, i quattro siluri di prora del sommergibile, che però fallirono il bersaglio.
          Dopo questo duplice insuccesso, alle 05.50 la Forza T fu avvistata da uno dei tre velivoli Cant. Z. 1007 bis 51° Gruppo Ricognizione Strategica, che erano partiti ancor prima dell’alba dalla Sardegna, con il compito di localizzare la formazione navale nemica, tenerne il contatto e fare da radiofaro per guidare l’attacco delle formazioni offensive. Il trimotore, della 213a  Squadriglia, trasmise il segnale di scoperta, ma subito dopo fu attaccato da due caccia Hurricane dell’801° Squadron della portaerei Eagle, pilotati dal capitano di corvetta R.A. Brabner e dal sottotenente di vascello P.J. Hutton, e colpito ripetutamente fu costretto ad ammarare nei pressi di Carloforte, dove l’equipaggio fu recuperato da un idrovolante Cant. Z. 506 della 613 Squadriglia  Soccorso, decollato dall’idroscalo di Elmas.
            Alle 07.49 si verificò un nuovo avvistamento delle navi britanniche da parte di un altro Cant. Z. 107 bis.
            Immediatamente Superaereo ordinò al Comandante dell’Aeronautica della Sardegna, generale di divisione aerea Aldo Urbani, di anticipare la partenza degli aerei offensivi, con direzione sudovest, per realizzare l’attacco in massa, prima che il nemico si trovasse a transitare a sud dell’isola, come era stato programmato la sera del 13 dallo stesso Urbani. In questo modo si voleva conseguire il duplice vantaggio di permettere alle forze aeree della Sardegna di poter ripetere l’attacco nel pomeriggio, nei limiti dell’autonomia della caccia di scorta, e di costringere le navi nemiche eventualmente danneggiate di navigare il più a lungo possibile a velocità ridotta, in modo da agevolare i successivi attacchi aerei dell’Aeronautica della Sicilia, programmati per il pomeriggio di quel 14 giugno. Per questa serie di attacchi erano stati ammassati, con rinforzi arrivati sulle due grandi isole dal continente, ben trecentoquarantasette aerei, che attaccarono pesantemente la Forza T nel corso della giornata.
         I decolli delle formazioni offensive ebbero effettivo inizio alle ore 09.00 (ora X), con la partenza da Elmas di otto tuffatori Cr. 42 del 24° Gruppo Caccia Terrestre ripartiti in due sezioni, ciascuna guidata da un S. 79 del 36° Stormo Aerosiluranti, e si conclusero in un quarto d’ora con il decollo dalle varie basi della Sardegna meridionale  di:
- quattordici S. 84 dei gruppi 108° e 109° del 36° Stormo Aerosiluranti;
- otto S. 79 del 130° Gruppo Aerosiluranti,
- dieci S. 79 bis del 104° Gruppo Aerosiluranti, con aggregati velivoli ed equipaggi del 2° e 3° Nucleo Addestramento Aerosiluranti; 
- diciotto Cant. Z. 1007 bis dei gruppi 29° e 33° del 9° Stormo Bombardamento Terrestre; - diciannove Cr. 42 del 24° Gruppo Caccia Terrestre ; 
- venti Mc. 200 del 7° e 16° Gruppo del 54° Stormo Caccia Terrestre.
          Si trattava complessivamente di un complesso di novantanove velivoli, che attaccarono, tre le 10.00 e le 10.30, in ondate successive ma sufficientemente coordinate.
          Nel corso dell’attacco, che fu fortemente contrastato dal tiro contraereo delle navi e dagli aggressivi caccia delle portaerei britanniche, e durante il quale gli aerosiluranti attaccarono sui due lati del convoglio, il piroscafo Tanimbar, colpito da un siluro sganciato da un S. 79, ricevette il colpo di grazie dalle bombe sganciate, da una quota di 4.000 metri, dai Cant. Z 1007 bis del 9° Stormo (colonnello pilota Giovanni d’Auria). Il Liverpool, colpito anch’esso da un siluro sganciato da un altro S 79, probabilmente del 130° Gruppo  (capitano Franco Melley), in fiamme e con la sala macchine demolita ed allagata, fu costretto ad invertire la rotta, per rientrare a Gibilterra, rimorchiato, alla velocità di quattro nodi, dal cacciatorpediniere Antelope, che era scortato dal Westcoth.
          A bordo del Liverpool (capitano di vascello William Rudolph Slayter) vi furono, tra i membri dell’equipaggio, quindici morti e ventuno feriti, e di essi quasi tutti si trovavano nella sala macchine. Inoltre l’incrociatore ebbe rese inutilizzabili due torri dei cannoni principali da 152 m/m, la X e la Y. Sfuggendo a nuovi attacchi aerei dell’Aeronautica della Sardegna, che nel pomeriggio del 14 giugno e nella giornata del 15 impiego formazioni di aerosiluranti e di bombardieri, il Liverpool, continuò la sua lenta e faticosa navigazione verso occidente. Raggiunto nel pomeriggio del 15 dal rimorchiatore Salvonia, che subentrò nel rimorchio al cacciatorpediniere Antelope,  e poi dalle corvette Jonquil e Spirea, dal trawler Lady Hogarth e dalla motolancia ML 458 che rinforzarono la sua piccola scorta, il Liverpool arrivò a Gibilterra il 17 giugno, per essere subito immesso in bacino.
          In totale le azioni della giornata del 14 giugno, ripetute nel pomeriggio senza successo da aerosiluranti e bombardieri contro il gruppo navale del danneggiato incrociatore Liverpool, non ebbero quei successi che si aspettavano e costarono all’Aeronautica della Sardegna la perdita di sedici velivoli: nove aerosiluranti, sei dei quali S. 84 del 36° Stormo con il loro comandante colonnello pilota Giovanni Farina, di quattro bombardieri, tre Cant. Z. 1007 e un S.79, e cinque caccia di scorta, quattro Cr. 42 e un Mc. 200.
          Dopo l’attacco degli aerei della Sardegna, la navigazione della Forza T, sempre tenuta sotto controllo dagli aerei da ricognizione dell’Asse, proseguì con una certa tranquillità, prima che si svolgessero, nel tardo pomeriggio, gli attacchi degli aerei tedeschi e italiani decollati dalla Sicilia.
          Il primo attacco fu iniziato dal II Fliegerkorps, che mandò in volo quattordici Ju. 88 dei gruppi da combattimento del 54° Stormo Bombardamento (KG.54)  KGr. 606 (capitano Rolf Siedschlag) e KGr. 806 (maggiore Richard Linke). Essi furono scortati sull’obiettivo da diciassette Bf 109 dellla Squadriglia Comando del 53° Stormo Caccia (Stab./JG.53) e del suo 2° Gruppo (II./JG. 53), rispettivamente guidati dal maggiore Günther von Maltzahan, comandante dello stormo, e dal capitano Walter Spies, comandante del gruppo. Due dei bombardieri furono costretti a rientrare per guasti meccanici, e i dodici Ju. 88 che alle 17.22 attaccarono in picchiata  scendendo da 3.000 metri di quota dalla direzione del sole, accolti dal violento fuoco contraereo delle navi, scelsero a bersaglio le due navi portaerei della formazione britannica, che non riportarono alcun danno. E questo sebbene una delle bombe che inquadrò l’Argus  (capitano di vascello G.T. Philip), cadendo sulla sinistra vicino alla prora, fosse esplosa sull’altro lato della portaerei passando proprio sotto lo scafo. Nel corso di questo attacco inconcludente il maggiore von Maltzahan, asso dell’JG. 53, abbatté un caccia Fulmar dell’807° Squadron, conseguendo la sua sessantaquattresima vittoria.
          Anche le azioni dell’Aeronautica della Sicilia (generale di squadra aerea Silvio Scaroni), a dispetto dei moltissimi velivoli impiegati contro la Forza T, risultarono un completo fallimento. Gli attacchi, che si svolsero poco dopo le 19.00 a 15 miglia a nord di Capo Blanc, furono vanificati dalla micidiale reazione contraerea delle navi di scorta nemiche, che proteggevano le navi del convoglio con il loro ampio schieramento circolare, dagli aggressivi caccia delle navi portaerei Eagle e Argus, ma soprattutto dall’imprecisione degli equipaggi nello sgancio di bombe e siluri.
         All’attacco in massa pomeridiano parteciparono ben centocinque velivoli, dei quali:
 - quattordici S. 79 del 130° Gruppo Aerosiluranti, guidati sull’obiettivo da un velivolo tedesco Ju. 88;
 - diciassette Ju. 87 del 102° Gruppo Bombardamento a Tuffo;
 - cinque S. 79 del 10° Stormo Bombardamento Terrestre;
 - quattro Cant. Z. 1007 bis del 50° Gruppo Bombardamento Terrestre,
 - nove S. 84 del 4° Gruppo Bombardamento Terrestre;
- diciassette Re. 2001 del 2° Gruppo Cacia Terrestre,
- trenta Mc. 202 del 155° Gruppo del 51° Stormo Caccia Terrestre;
- sette Mc. 200 del 54° Stormo Caccia Terrestre.
          Le perdite di questa massa di velivoli, che comprendeva quattordici aerosiluranti, diciassette bombardieri in picchiata, diciotto bombardieri in quota e cinquantaquattro caccia, furono rappresentate dal mancato rientro alla base di tre velivoli: un S.79, un Ju. 87 e un Re. 2001.
In campo avverso, nonostante le solite ottimistiche valutazioni degli equipaggi di volo italiani, che dichiararono numerosi colpi a segno sulle navi e numerosi abbattimenti di aerei nemici, le perdite subite nella giornata del 14 giugno degli aerei delle portaerei britanniche furono modeste. Esse furono limitate a tre soli velivoli da caccia, che portarono al totale delle perdite della giornata a sette velivoli (tre Hurricane dell’801° Squadron e quattro Fulmar dell’807°), due dei quali abbattuti dal fuoco amico delle navi, che nel corso degli attacchi sparavano su ogni aereo che si avvicinava, uno dai caccia tedeschi e quattro dagli aerei italiani. Ad essi si aggiunse un velivolo Albacore, che fu costretto ad ammarare durante una missione antisommergibile.  
          Alle 19.30, mentre stava terminando l’attacco dei velivoli dell’Aeronautica Sicilia, il sommergibile l’Alagi, trovandosi a quota periscopica, individuo a grande distanza quella che ritenne essere la sagoma di una corazzata. Nell’avvicinarsi a quell’allettante obiettivo L’Alagi si trovo in buona posizione per attaccare una portaerei, contro la quale il comandante del sommergibile, tenente di vascello Sergio Puccini, alle ore 21.00 il lancio di due siluri fortemente angolati, che non arrivarono a segno.
         Sempre in serata, dopo il tramonto del sole, il posamine veloce Welshman (capitano di vascello W.H.D. Friedberger) si staccò dalla Forza T, e proseguendo la navigazione ad alta velocità (ventotto nodi) superò il Canale di Sicilia e raggiunse Malta il mattino dell’indomani, giorno 15, portandovi il carico urgente che trasportava, costituito da benzina e munizioni.
Nel frattempo, come era stato pianificato, al termine degli attacchi aerei dell’Asse, la Forza W di copertura del contrammiraglio Curteis, essendo arrivata all’entrata occidentale del Canale di Sicilia nella zona del Banco di Skerki (a nord di Biserta), alle 20.30 invertì la rotta tornando verso occidente con la corazzata Malaya, le portaerei Eagle e Argus, gli incrociatori Kenya e Charybdis e i cinque cacciatorpediniere   Onslov,  Icarus, Escapade, Wrestler e  Vidette. Da questo momento, mentre la forza W manovrava per portarsi in una zona di sicurezza lontana dagli aeroporti della Sardegna, le cinque navi mercantili del convoglio WS. 19/Z (Troilu, Burdwan, Orari Chant, Kentucky) proseguirono la navigazione per Malta assieme alle Forza X, la scorta diretta  del capitano di vascello Hardy. Erano a sua disposizione l’incrociatore contraereo Cairo, i cinque cacciatorpediniere di squadra  Bedouin , Marne, Matchless, Ithuriel, Partridge, i quattro cacciatorpediniere di scorta Blankney,  Badsworth, Middleton  e  Kujawiak, i quattro dragamine di squadra Hebe, Speedy, Rye e Hythe, e le sei motolancie ML-121, ML-134, ML-135, ML-168, ML-459, 462.
         Poco dopo, al crepuscolo, si verificò, con obiettivo le navi mercantili del convoglio, un ultimo attacco aereo del II Fliegerkorps, realizzato da una formazioni di nove  Ju 88 del gruppo da combattimento KGr. 606 comandato dal capitano pilota Rolf Siedschlag. I risultati dell’attacco, sviluppato in picchiata sotto il forte tiro contraereo delle navi, non furono quelli sperati, e due velivoli tedeschi della 3a Squadriglia non rientrarono alla base, essendo stati abbattuti.
         Superata la zona del Banco Skerki e doppiato Capo Bon, la navigazione del convoglio W.S. 19/Z e delle unità di scorta della Forza X proseguì nella notte costeggiando le coste della Tunisia, fuori dalle ampie zone di mare minate dagli italiani. Essa si svolse tranquilla, ma le prime luci del mattino del 15 giugno riservarono ai britannici una brutta sorpresa, poiché il convoglio, trovò ad attenderlo, a sud di Pantelleria, le unità italiane della 7a Divisione Navale, comandata dall’ammiraglio di divisione Alberto da Zara sull’incrociatore Eugenio di Savoia.
         In quel momento, alle 05.29, si trovano di fronte: da parte italiana, due incrociatori con sedici cannoni da 152 m/m, e cinque cacciatorpediniere con venti cannoni da 120 m/m; da parte britannica, un incrociatore con otto cannoni da 102 m/m, cinque cacciatorpediniere di squadra con trenta cannoni da 120 m/m, e quattro cacciatorpediniere di squadra con ventiquattro cannoni da 102 m/m, gli stessi dell’incrociatore Cairo.
         Non appena avvistate le navi della formazione britannica l’ammiraglio Da Zara, dirigendo all’attacco, partì letteralmente alla carica ordinando di aumentare la velocità a trentadue nodi. Questo fatto, poi duramente contestatogli dall’ammiraglio Iachino, superiore di Da Zara quale Comandante della Squadra Navale, ebbe un primo effetto negativo nella condotta dell’attacco perché lasciò i cinque cacciatorpediniere della 7a Divisione Navale, a dover inseguire gli incrociatori, perdendo cammino, specialmente le unità più lente della 14a Squadriglia, il Vivaldi e il Malocello. Ragion per cui, come vedremo, poco dopo l’apertura del tiro da parte dell’Eugenio e del Montecuccoli, Da Zara ordinò alle due siluranti di staccarsi dalla formazione per andare ad attaccare autonomamente il convoglio nemico, e con lui rimasero i tre cacciatorpediniere della 10a Squadriglia, Oriani. Aviere e Premuda.
         Il capitano di vascello Hardy, un’ufficiale a cui non mancava l’energia, affrontò con decisione la inattesa e sconcertante situazione determinata dall’apparizione delle navi italiane, il cui primo avvistamento arrivò tramite uno dei tre velivolo da caccia a lungo raggio Beaufort del 235° Squadron che stava sopraggiungendo da Malta per assumere la scorta aerea al convoglio. Si verificò quindi una situazione, evidentemente non prevista, o sottovalutata, dall’Ammiragliato britannico nel pianificare l’operazione Harpoon.
          Era stato previsto che in caso di necessità la Forza X sarebbe stata rinforzata con l’incrociatore Liverpool. Ma quest’ultimo era stato silurato e gravemente danneggiato dagli aerosiluranti della Sardegna. Pertanto, il vice ammiraglio Curteis, informato nel pomeriggio del 14 giugno dell’avvistamento delle navi italiane salpate da Cagliari, da parte dei sommergibili Unison  e  Safari, dislocati nella stessa linea di  agguato tra la Sardegna e la Sicilia, non se l’era sentita di privarsi di un altro incrociatore della Forza W perché ritenne essenziale la sua presenza per la protezione delle due portaerei. Inoltre, essendo le unità della 7a  Divisione Navale dirette verso est – dovendo entrare a Palermo da dove ripresero il mare durante la notte, con i cacciatorpediniere ridotti a cinque per le avarie verificatesi sul Gioberti e sullo Zeno – i comandi britannici ritennero che le navi italiane fossero dirette verso lo Stretto di Messina per passare nello Ionio e ricongiungersi al grosso della Squadra Navale. Questa era stata segnalata nel Golfo di Taranto, da un velivolo da ricognizione Baltimore del 69° Squadron di Malta, mentre procedeva con rotta sud, per intercettare il convoglio dell’operazione Substance, come daltronde già risultava ai comandi britannici dalle intercettazioni della loro organizzazione crittografica Ultra, che continuava a decrittare correttamente sia le trasmissioni compilate con il codice della macchina cifrante tedesca Enigma che di quella italiana Hagelin C. 38.
          Nascondendo le navi mercantili del convoglio con una cortina di fumo, a cui parteciparono anche i quattro dragamine di squadra praticamente inutili, assieme alle sei motolancie, nel combattimento navale che si stava sviluppando, il comandante Hardy mandò all’attacco i suoi cinque cacciatorpediniere di squadra, che però furono duramente contrastati dal fuoco degli incrociatori italiani, che si dimostrò subito molto celere e ben calibrato dai direttori del tiro, ma che si sarebbe dimostrato molto più efficace se fosse stato sostenuto dalle segnalazioni degli idrovolanti da ricognizione Ro. 43, catapultati dall’Eugenio e dal Montecuccoli per tenere sotto osservazione le navi britanniche e trasmettere al Comando della 7a Divisione i dati sulla loro composizione e spostamenti.
          Purtroppo uno dei due velivoli, quello dell’Eugenio avente per pilota il tenente Mario Sordi  e per osservatore il tenente di vascello Vitaliano Marsigliani, fu attaccato e abbattuto dal maggiore W.C. Wigmore, pilota di uno dei due caccia Beaufighter del 235° Squadron che in quel momento si trovavano nel cielo della zona della battaglia. L’altro Ro. 43, catapultato dal Montecuccoli, non poté trasmettere nulla per un sopraggiunto guasto alla radio verificatosi durante il catapultamento. Si salvò il tenente Sordi, recuperato dalla sezione di Mas 564 e 563, salpati da Pantelleria.
Il tiro degli dell’Eugenio di Savoia (capitano di vascello Franco Zannoni) e del Raimondo Montecuccoli (capitano di vascello Arturo Solari), fu inizialmente ben diretto contro i cacciatorpediniere di squadra della 11a Squadriglia che, guidati dal Bedouin (capitano di fregata B.G. Scurfield), venivano decisamente all’attacco, sostenuti soltanto dal Cairo che, sparando con le sue modeste artiglierie. appoggiava la coraggiosa azione offensiva dei cacciatorpediniere. Nel contempo, il Cairo svolgeva un duplice compito, perché  continuava a rivolgeva la sua attenzione anche alla protezione del convoglio, impegnandosi con i quattro cacciatorpediniere di scorta e i quattro dragamine di squadra ad occultarlo, stendendo cortine di fumo e nebbia artificiale risultate molto efficaci per nascondere i piroscafi al nemico.
          Come abbiamo detto, l’ammiraglio Da Zara aveva diretto la sezione dei cacciatorpediniere Vivaldi e Malocello, che non reggevano la velocità dei suoi incrociatori, contro i piroscafi del convoglio nascosti dal fumo. Mentre manovravano in modo da aggirare il convoglio da sud, facendo fuoco con le artiglierie  e lanciando i siluri, uno dei quali sembrò aver colpito un piroscafo, le due siluranti italiane si trovarono la strada sbarrata dai quattro cacciatorpediniere di scorta della 12a Squadriglia  Blankney, Badsworth, Middleton e Kujawiak, e subito vennero contrastati dal tiro a lunga distanza dei cacciatorpediniere di squadra Marne e del Matchless, le ultime due unità della 11a Squadriglia guidata dal Bedouin all’attacco degli incrociatori italiani. Ne consegui che il Marne e il Matchless furono costretti ad impegnarsi su due fronti, sparando con le loro artiglierie da 120 m/m ad alta elevazione e a tiro rapido, distribuite su tre torri binate a tenuta stagna.
          Nel frattempo, dopo alcuni minuti dall’apertura del fuoco, il tiro degli incrociatori italiani, efficacemente appoggiato dai cannoni da 149 m/m del cacciatorpediniere Premuda (capitano di fregata Mario Bartalesi), centrò e danneggiò gravemente il Bedouin, che fu colpito ripetutamente da ben dodici proiettili, mentre altri tre proiettili raggiunsero il Partridge, Entrambe le navi rimasero immobilizzate in fiamme.
          Dall’ammiraglio Da Zara il Bedouin fu erroneamente ritenuto un incrociatore pesante della classe “London”, che addirittura, secondo la versione riferita dallo stesso Comandante della 7a  Divisione, fu visto saltare in aria dietro la cortina difensiva di fumo e nebbia artificiale stesa dalle navi britanniche per proteggerlo.
Nel frattempo, da distanze comprese tra i 17.000 e i 20.000 metri, era stato preso di mira anche il Cairo. L’incrociatore fu colpito due volte da proietti da 152 m/m sparati a tiro celere dall’Eugenio  e dal Montecuccoli, che per fortuna della nave causarono soltanto scarsi danni, non essendo esplosi. La fortuna del Cairo risedette sul fatto che, avendo esaurito il munizionamento a palla, gli incrociatori italiani, a partire dalle 06.32, stavano impiegando proietti perforanti, che esplodevano soltanto se trovavano all’urto una forte resistenza.
 Da parte italiana, leggeri danni riportarono i due incrociatori, colpiti entrambi da proiettili da 120 mm: due centrarono l’Eugenio ed uno il Montecuccoli.
         Mentre continuava il combattimento il convoglio, venuto a trovarsi senza adeguata difesa essendo la quasi totalità della scorta impegnata a fronteggiare le navi italiane, venne attaccato da formazioni di bombardieri del II Fliegerjkorps, decollati dai vicini aeroporti della Sicilia. Approfittando del fatto che gli Spitfire di Malta non erano ancora arrivati ad assumere la scorta al convoglio, che si trovava ancora fuori dal loro raggio d’azione, e che la maggior parte delle unità di scorta erano impegnate contro le navi italiane,nel corso di due ore attaccarono trenta Ju 88 dei gruppi da combattimento I./KG. 54, KGr. 606 e KG. 806. A questi reparti si sarebbero aggiunti  nel corso della giornata,  provenienti da Creta e da Derna (Cirenaica), gli Ju. 88 del gruppo da bombardamento II./LG.1 e della squadriglia 10/LG.1, che sarebbero subito impiegati dopo un rapido rifornimento negli aeroporti della Sicilia.
          L’attacco dei trenta Ju. 88, decollati in tre formazioni, fu particolarmente efficace, dal momento che attaccando senza contrasto di caccia nemici, non ancora arrivati da Malta, riuscirono a colpire tre delle cinque navi mercantili. Il piroscafo statunitense Chant, centrato in pieno da una bomba nell’attacco di quattro velivoli del I./KG.54, uno dei quali fu abbattuto dalla reazione delle navi, saltò in aria. La petroliera Kentucky che, per il carburante trasportato, era la nave più importante del convoglio, presa di mira da sette Ju. 88 del KGr. 606, a causa di una bomba caduta vicino allo scafo restò immobilizzata per la rottura di una conduttura del vapore. Infine, nell’ultimo attacco di undici Ju. 88 del I./KG.54, che furono scortati da quattordici caccia Bf 109 del II./JG.53 il piroscafo Burdwan fu anch’esso inquadrato dalle bombe e si arrestò in fiamme, con il timone in avaria e la sala macchine allagata.
         A questo punto le condizioni per annientare interamente il convoglio WS. 19/Z, ridotto ai piroscafi Orari e Troilus, erano tra le più favorevoli, anche perché l’ammiraglio Da Zara aveva a disposizione ancora quindici ore di luce da sfruttare adeguatamente. Ma, a guastare tutto contribuirono due fatti negativi che si verificarono a breve distanza di tempo.
Il primo fu determinato dalla necessità di dare aiuto al cacciatorpediniere Vivaldi (capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni), che gravemente danneggiato da uno dei colpi da 120 m/m sparati dal Marne e dal Matchless, era rimasto immobilizzato e in fiamme, protetto  dal sezionario Malocello (capitano di fregata Mario Leoni). Ciò costrinse l’ammiraglio Da Zara a distaccare dalla sua divisione i restanti tre cacciatorpediniere, Oriani, Aviere, Premuda, in soccorso del Vivaldi, che però si salvo prima del loro arrivo. E questo avvenne anche per l’appoggio fornitogli dal Malocello, che con i suoi cannoni continuò a far fuoco sui cacciatorpediniere britannici, intenzionati a dare al Vivaldi il colpo di grazia; ma soprattutto vi contribuì il fatto che, prima il Marne e il Matchless, e successivamente i quattro  cacciatorpediniere di scorta, si allontanarono su ordine del Cairo, per contribuire a fronteggiare gli incrociatori italiani, duramente impegnati dai cacciatorpediniere di squadra, che si trovavano in stato di netta inferiorità ed anche a mal partito.
          Nel dirigere verso il Vivaldi l’ Oriani, l’Aviere e il Premuda si trovarono la strada sbarrata dal Blankney, Badsworth,  Middleton e  Kujawiak, che lo rirdiamo per far riflettere, avevano cannoni modesti ed erano privi di lanciasiluri . Il comandante della 14a Squadriglia, capitano di vascello Riccardo Pontremoli, sull’Oriani, con un comportamento che fu giudicato rinunciatario ed errato da parte dell’ammiraglio Iachino, ritenendo di aver di fronte forze nemiche superiori decise di sottrarsi al combattimento dirigendo con le sue tre unità verso nord per aggirare il lungo sbarramento minato italiano 7/AN, che si trovava a sud di Pantelleria ed era lungo ben 25 miglia. Una volta completata la manovra, per poi tornare a sud dall’altro lato dello sbarramento, arrivato con molto ritardo nella zona in cui si trovava il danneggiato Vivaldi, ormai non più sottoposto agli attacchi del nemico, il comandante Pontremoli ricevette l’ordine di ricongiungersi agli incrociatori con l’Oriani e l’Aviere. Il Premuda e il Malocello restarono con il Vivaldi in fiamme, fino al momento in cui esso entrò nel porticciolo di Pantelleria, dove con molta fatica fu estinto l’incendio. Quindi il Premuda e il Malocello si allontanarono per raggiungere agli incrociatori, ricongiungendosi ad essi quando il combattimento di Pantelleria era già terminato.
          Il secondo fatto negativo, quello più grave, fu causato da un’intempestiva manovra tattica dell’ammiraglio Da Zara, determinata da un suo intempestivo errore di valutazione, che troppo spesso si è voluto ignorare. Essendo stato costretto a privarsi dell’appoggio dei tre cacciatorpediniere della 10a Squadriglia per inviarli in aiuto al Vivaldi e del Malocello, con la conseguenza che le sue navi si trovarono divise in tre gruppi molto distanti tra loro e tutti impegnati da nuclei nemici di consistenza numerica superiore, se non potenziale per le differenze di artiglieria dell’Eugenio e del Montecuccoli, il Comandante della 7a Divisione Navale, invece di mantenere la posizione in modo da continuare a sbarrare la rotta al nemico, alle 07.00 sospese improvvisamente il combattimento, per allontanarsi verso est.
         Questa manovra tattica fu giustificata da Da Zara, con l’intenzione di distruggere il convoglio nemico che costituiva il suo obiettivo primario, e pertanto, ritenendo, erroneamente, che le navi mercantili britanniche avrebbero manovrato per aggirare lo sbarramento minato 7 AN, aveva deciso di attenderle al varco, dirigendo verso nordovest, dove apparivano colonne di “fumo persistenti” di navi in fiamme. Ma così facendo andò invece in tutt’altra direzione, che fu poi aggravata dalla decisione di risalire con rotta nord lo sbarramento 7 AN per ricercare il nemico, mentre invece, una volta tornato verso sud, trovò soltanto i relitti in fiamme delle navi mercantili colpite dagli aerei tedeschi.
          Nel corso di questa manovra, prolungatasi per circa due ore, le navi italiane, che stavano costeggiando lo sbarramento minato 7 AN per raggiungere la zona in cui apparivano i fumi dei roghi delle navi in fiamme, furono attaccate da sei aerosiluranti britannici, due Beaufort del 217° Squadron della R.A.F. e quattro Albacore dell’828° Squadron della F.A.A. [Aviazione Navale], decollati da Malta. La loro scorta, costituita da sedici Spitfire del 249° Squadron, era dovuta rientrare anzitempo a causa dell’insufficiente raggio d’azione dei caccia. Conseguentemente, gli aerosiluranti, che erano al comando del capitano di corvetta A.J.J. Roe, proseguendo la loro missione senza alcuna protezione, individuate le navi italiane a nord di Pantellerie, le attaccarono, lanciando i siluri contro l’Eugenio, il Montecuccoli e il Malocello senza riuscire a colpirli.
          Contribuirono all’insuccesso degli aerei britannici le pronte ed efficaci contromanovre dei due incrociatori e del cacciatorpediniere, e la loro reazione di fuoco, a cui si aggiunse l’intervento di due velivoli Mc.200 del 54° Stormo Caccia, che essendo di scorta alle navi intralciarono la manovra d’attacco degli aerosiluranti. Uno dei Re. 200 colpì gravemente all’impianto idraulico l‘Albacore del sottotenente di vascello pilota Harry Horrocks, che però riuscì a  rientrare a Malta.
         Raggiunta la zona delle navi in fiamme alle 12.15, le unità della 7a  Divisione  presero di mira la immobilizzata petroliera Kentucky, che per il suo carico di ben 14.500 tonnellate di combustibili, preziosissimi per Malta, era la nave più importante del convoglio, quella che doveva essere protetta ad ogni costo.
          L’unico danno della Kentucky era rappresentato da un incendio in esaurimento scoppiato nella sala macchine per la rottura di una conduttura principale di vapore, determinata dall’esplosione di una bomba caduta nei pressi dello scafo. Pur essendo praticamente intatta, la petroliera era stata abbandonata dall’equipaggio, dal momento che le navi di scorta avevano ricevuto l’ordine di affondarla per non ritardare, con un lento rimorchio di 150 miglia, la navigazione del convoglio verso Malta, a scapito della sua sicurezza.
          Gli incrociatori Eugenio e Montecuccoli e i cacciatorpediniere Oriani e Aviere, trovarono la Kentucky che aveva nei suoi pressi il cacciatorpediniere di scorta Badsworth e dragamine di squadra Hythe e l’Hebe, che erano stati incaricati di recuperare gli equipaggio del piroscafo Burdwan e della petroliera per poi affondarle. Le tre navi britanniche, vedendo arrivare in lontananza le minacciose sagome degli incrociatori italiani, si allontanarono alla massima forza senza avere la possibilità di rispondere al fuoco, iniziato dalla distanza di circa 18.000 metri. L’Hebe, che si trovava il più vicino alla Kentucky mentre manovrava alla massima velocità di diciassette nodi coprendosi di fumo, fu colpito da un proiettile da 152 m/m che lo raggiunse sul ponte, distruggendo il bagno nella cabina del comandante, per poi passare oltre lo scafo senza esplodere. Il dragamine riuscì a sfuggire alla distruzione, assieme all’Hythe e al Badsworth, anche perché i due incrociatori italiani, dopo quattro minuti dall’inizio del fuoco, cessarono di sparare per l’aumentata distanza dei bersagli, erroneamente ritenuti molto veloci.
          Non fu altrettanto fortunata la Kentucky che, presa dall’Eugenio e dal Montecuccoli sotto un violento tiro d’artiglieria, e colpita anche da un siluro dell’Oriani, visto deflagrare sollevando una colonna di fumo bianco, fu lasciata che stava bruciando da un capo all’altro e sviluppando una lunghissima colonna di fumo, visibile a 30 miglia di distanza.
          Nel contempo il cacciatorpediniere Ascari (capitano di fregata Teodorico Capone) lanciò i siluri contro un piroscafo abbandonato dalla scorta e in fiamme. Si trattava certamente del Burdwan, dal momento che l’altro piroscafo, lo statunitense Chant, colpito dalle bombe degli Ju. 88 del I./KG.54 era già affondato, esplodendo. Il medesimo Burdwan fu poi attaccato da un velivolo italiano S 79 del 132° Gruppo Aerosiluranti guidato dal comandante del reparto, capitano pilota Carlo Emanuele Buscaglia, che al rientro a Pantelleria si disse convinto di aver dato a quel piroscafo il colpo di grazia.
         Frattanto, proseguendo nella navigazione verso nord, allontanandosi dalle navi superstiti del convoglio che dirigeva in tutt’altra direzione, i due incrociatori italiani avvistarono due cacciatorpediniere, ritenuti del tipo “Jervis” e, considerando che avessero intenzioni aggressive, si diressero verso di essi, iniziando l’inseguimento, per poi cominciare a sparare alle 12.35 alla distanza di 19.500 metri. Si trattava del Bedouin  a rimorchiato del Partridge, che essendo riuscito a rimettere in moto una macchina aveva ricevuto dal comandante Hardy l’ordine di tentare di raggiungere Gibilterra. Mentre l’Eugenio e il Montecuccoli aprivano il fuoco, il Partridge mollò il rimorchio, stese intorno all’immobilizzato Bedouin una cortina di fumo, e poi si allontanò.
          Lasciato solo il Bedouin era ormai un bersaglio allettante per le navi italiane, che però esitarono a dargli il colpo di grazia, manovra ritardata dallo stato di incertezza e di cautela con cui manovrò l’ammiraglio Da Zara che, sospendendo il fuoco, non se la sentì di stringere le distanza avvicinandosi alla cortina di fumo che stava occultando il grosso cacciatorpediniere. Ad un certo punto dietro a quella cortina fu osservata un’esplosione, determinata dal siluro sganciato da un velivolo S 79 della 181a Squadriglia del 132° Gruppo Aerosiluranti, avente per pilota il sottotenente Marino Aichner, che aveva colpito a centro nave il Bedouin. Questi, sbandando sul fianco sinistro, affondò in cinque minuti capovolgendosi.
          Nel corso dell’attacco l’S 79, che era decollato da Pantelleria assieme a quello del capitano Buscaglia, fu colpito ad un serbatoio della benzina dalla reazione del Bedouin, e fu costretto ad ammarare non lontano dalla sua vittima. Tuttavia, i sette membri dell’equipaggio si salvarono prendendo posto su un battellino e furono poi raccolti da mezzi di soccorso nazionali. L’equipaggio del Bedouin fu anch’esso raccolto da altri mezzi di soccorso italiani. Un idrovolante Cant. Z. 506, ammarando, raccolse i dieci uomini più gravemente feriti; gli altri furono salvati dalla piccola nave ospedale Meta che, per errore, alle 19.00 fu attaccata, fortunatamente senza riportare danni, da una pattuglia di sei caccia italiani Cr. 42 del 54° Stormo, quattro dei quali armati con bombe da cinquanta chili, decollati da Pantelleria al comando del capitano pilota Bruno Visconti.
          L’Eugenio e il Montecuccoli, vista sfumare l’occasione di affondare il cacciatorpediniere, rivolsero l’attenzione sul Partridge, che incredibilmente non riuscirono a raggiungere sebbene la velocità massima sostenibile del cacciatorpediniere, per i danni riportati alle macchine e allo scafo, non superasse i diciassette nodi, e quella degli incrociatori italiane fosse di ben trenta nodi.
          Il Partridge, che una volta che le navi italiane cessarono di inseguirlo, inverti la rotta per controllarne i movimenti da grande distanza, e lo fece fin quando ricevette dal comandante Hardy l’ordine di raggiungere Gibilterra. Durante la navigazione verso Capo Bon, per poi proseguire per la sua destinazione, il Partridge fu attaccato da un velivolo tedesco Ju. 88 le cui bombe, cadendo vicino allo scafo costrinsero il cacciatorpediniere a fermarsi, per riparazioni che si prolungarono per circa un’ora.
 


***

 
          Mentre si svolgevano gli avvenimenti descritti, le unità della 7a  Divisione Navale erano state bombardate da alta quota da alcuni aerei, il cui tipo e la nazionalità non furono precisati, ma che dovevano essere probabilmente tedeschi, che in quel periodo stavano effettuando diversi attacchi contro le navi britanniche, assieme a quelli della Regia Aeronautica.
          Occorre dire che da parte italiana, vi furono notevoli difficoltà ad intervenire con l’aviazione contro il convoglio britannico poiché, dopo gli attacchi serali, all’alba del 15 l’Aeronautica della Sicilia era ridotta a disporre soltanto di quattro siluri. Inoltre, gran parte dei bombardieri, rimasti danneggiati o richiedenti accurate divisioni, essendo stati il giorno avanti frettolosamente ammassati sugli aeroporti occidentali dell’isola, si trovarono nella condizioni di non poter completare il rifornimento per deficienza di personale specializzato. Basti pensare che nel corso della giornata, furono inviati in volo, per tenere sotto controllo la situazione nel Canale di Sicilia, appena quattro ricognitori S. 79 del 10° Stormo Bombardieri. Di essi soltanto uno, decollato alle 05.05 in seguito ad un primo avvistamento segnalato da un idrovolante da ricognizione Cant. Z. 506 dell’Aviazione Marittima, fornì un apprezzabile contributo nel mantenere il contatto con le navi nemiche fino alle ore 13.00.
          Vediamo ora come avvenne l’intervento dei velivoli italiani, e il proseguimento delle azioni di quelli tedeschi del II Fliegerkorps, che si verifico, dopo il fruttifero intervento dei primi trenta Ju. 88, con il decollo di altri venticinque bombardieri, ripartiti in tre formazioni.
          In seguito ad una richiesta di appoggio aereo offensivo pervenuto  dalla 7a Divisione, e ai rapporti dei ricognitori che alle 07.45 avevano avvistato un gruppo di piroscafi a 40 miglia a sud-est di Capo Bon, il Comando dell’Aeronautica della Sicilia ordinò la partenza di dodici bombardieri – otto S. 84 e quattro S. 79 – che furono seguiti da  tre aerosiluranti S.79, tre bombardieri Cant. Z. 1007 bis e diciotto bombardieri in picchiata  Ju. 87, scortati da una trentina di caccia Mc. 202.
I decolli delle prime due formazioni di bombardieri si verificarono alle 08.20, dopo che agli equipaggi era stato dato tassativo ordine di attaccare soltanto navi mercantili, come aveva raccomandato Supermarina, per evitare equivoci con le unità da guerra nazionali. I quattro S. 79 del 10° Stormo, raggiunta la zona indicata per attaccare il convoglio, avvistarono soltanto unità navali, due delle quali in fiamme, probabilmente i cacciatorpediniere  Bedouin e Patridge. Avendo l’ordine di non attaccare unità da guerra, essendo in zona quelle italiane, il comandante della formazione, colonnello Pasquale d’Ippolito, trascurando per negligenza di prolungare le ricerche delle navi mercantili del convoglio, la cui presenza non poteva essere lontana, ordinò ai suoi velivoli il rientrare alla base.
           Alle 10.45 la formazione di bombardieri S. 84 del 4° Gruppo, riuscì ad avvistarono ed attaccare il convoglio britannico a 60 miglia a sud di Pantelleria, senza però riuscire ad attenere alcun risultato. Lo sgancio di trentasei bombe da centosessanta chili contro le navi fu realizzato da 3.000 metri di quota, ed avvenne con il contrasto di quattro Spitfire a lungo raggio del 126° Squadron della R.A.F. che, al comando del capitano J.P. Winfield, riuscirono ad abbatterete in fiamme due S. 84, tra cui quello del comandante del 4° Gruppo, maggiore Gastone Valentini.
          La stessa sezione di Spitfire, la prima che decollando da Malta raggiunse il convoglio per assumerne la scorta, grazie all’adozione di serbatoi supplementari da sessanta galloni necessari per aumentarne l’autonomia dei caccia, ottenne subito dopo un altro successo, abbattendo un idrovolante RS. 14 della 144a Squadriglia della Ricognizione Marittima. Degli equipaggi dei tre velivoli italiani abbattuti si salvarono soltanto il maggiore Valentini e due  uomini del suo equipaggio, recuperati in mare da un idrovolante soccorso nazionale.
          Nel frattempo, I tre S. 79, della 281a Squadriglia del 132° Gruppo Aerosiluranti, guidati dal capitano Buscaglia, furono attaccati durante la rotta da un caccia a lungo raggio Beaufighter del 235° Squadron della RAF, con pilota il sergente A.J. Hall, e furono costretti ad atterrare a Pantelleria, da dove soltanto due di essi, riparati alla meglio i danni subiti, poterono riprendere il volo alle 12.20, scortati da undici velivoli da caccia, sei Re. 2001 e cinque Mc. 202. Come abbiamo visto i due S.79 ebbero occasione di liberarsi dei lori siluri in modo redditizio contro due navi danneggiate e immobilizzate, affondando il cacciatorpediniere Bedouin e colpendo il piroscafo Burdwan.
          Ancora con esito negativo si concluse l’attacco portato alle 12.15 da una formazione di dieci bombardieri in picchiata Ju. 87 del 102° Gruppo (capitano Giuseppe Cenni), che erano scortati da venticinque caccia Mc. 202 del 155° Gruppo (maggiore Duilio Fanali). Nel cielo del convoglio gli aerei italiani trovarono ad attenderli dodici Spitfire del 601° Squadron, e nel combattimento che seguì andarono perduti uno Ju. 87, un Mc. 202 e uno Spitfire, mentre nessuna nave britannica rimase colpita dalle bombe sganciate a tuffo.
          Vediamo adesso come si realizzarono gli attacchi delle tre formazioni di bombardieri tedeschi, due dei quali erano stati costretti ad interrompere la missione per noie meccaniche, ragion per cui arrivarono sull’obiettivo ventitré Ju. 88.
          Alle 14.20 la prima formazione costituita da diciotto velivoli, manovrando con il sole alle spalle, effettuo l’attacco in picchiata contro alcune unità navali che si trovavano nella zona di Pantelleria. Furono probabilmente parte di questi velivoli ad effettuare l’attacco contro le unità della 7a Divisione, nel corso del quale le bombe sganciate sulle navi italiane risultarono centrate, ma nessuna unità riporto danni, sebbene il cacciatorpediniere Ascari fosse stato particolarmente preso di mira.
Alle 14.32, sopraggiunse la seconda formazione, costituita da tre Ju. 88 del KGr 606 la cui attenzione fu rivolta ad una petroliera in fiamme, che gli equipaggi tedeschi ritennero di aver colpito con una bomba. Si trattava certamente della Kentucki, non ancora affondata dopo il martellamento d’artiglieria a cui l’avevano sottoposta le navi dell’ammiraglio Da Zara.
          Infine, alle 14.35, arrivarono i quattro Ju 88 della terza formazione che bombardarono il cacciatorpediniere Partridge, danneggiandogli il timone per un colpo vicino e costringendolo, come abbiamo detto, a fermarsi temporaneamente.
          Intorno alle 17.00, mentre le navi della 7a Divisione stavano lasciando la zona di Pantelleria per rientrare alla base, trovandosi a levante dell’isola furono nuovamente attaccate da tre aerosiluranti Albacore dell’828° Squadron della FAA, gli ultimi rimasti disponibili a Malta. Al comando del tenente di vascello W.D. Winterbottom, gli Albacore attaccando da breve distanza lanciarono i loro siluri contro il Montecuccoli che con pronta ed efficace manovra evitò di restare colpito.
          Nel cielo delle navi vigilava in quel momento una formazione di nove Re. 2001 del 2° Gruppo Caccia che, al comando del tenente Giorgio Gasperoni, intervennero subito dopo il lancio dei siluri mitragliando e colpendo due Albacore. Uno di essi, che aveva riportato gravi danni, riuscì a rientrare faticosamente a Malta, mentre il secondo Albacore, pilotato dal sergente C. Armitage, fu abbattuto. La stessa fine fu riservata dal Re. 2001 del tenente Gasperoni ad un caccia a lungo raggio Beaufighter, del 235° Squadron, che pilotato dal sottotenente di vascello Cyril Casey, stava scortando gli aerosiluranti. I quattro uomini degli equipaggi dei due velivoli britannici, piloti e navigatori, decedettero.
          Occorre mettere in rilievo che nel corso della giornata del 15 giugno, per tutte le quindici ore di luce a partire dalle ore 05.20 e fino alle ore 20.30, l’Aeronautica della Sicilia, su preventiva richiesta di Supermarina, impiegò per la protezione della 7a Divisione Navale complessivamente centodiciassette velivoli da caccia: ventinove Mc. 202, ventisei Mc. 200, venti Re. 2001, diciotto G. 50, nove Re. 2000 e quindici Cr. 42, che effettuarono missioni di scorta ad alta e bassa quota..
         Dopo l’ultimo attacco degli Albacore le navi della 7a  Divisione poterono proseguire la navigazione di rientro, raggiungendo nella tarda mattinata dell’indomani, 16 giugno, il porto di Napoli accolte da spontanee ed intense manifestazioni di giubilo. Occorre dire che durante la navigazione le navi italiane, passando la sera del 15 vicino all’isola di Marettimo, erano state avvistate dal sommergibile britannico Unbroken, (tenente di vascello A.C.G. Mars), che però non poté far nulla per attaccarle, poiché stavano transitando ad alta velocità lontane dal suo raggio d’azione.
 

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         Ritornando alla navigazione del convoglio britannico e delle sue unità di scorta, dobbiamo concludere che l’ammiraglio Da Zara, pur avendo agito in buona fede, con la sua errata manovra di risalire lo sbarramento minato 7 AN aveva permesso alle unità britanniche di sganciarsi dapprima dal combattimento, e poi di proseguire speditamente la navigazione per Malta, con rotta diretta.
         Inizialmente, a partire dalle prime ore del mattino del 15 giugno, alla scorta delle navi del convoglio WS. 19/Z avevano provveduto sezioni di caccia a lungo raggio della RAF, i bimotori Beaufigter, e gli Spitfire a lungo raggio forniti di serbatoi supplementari, e in grado di spingersi alla distanza di 150 miglia dalle basi aeree di Malta. Ma a partire dalle 09.30, con il convoglio che si trovava a 110 miglia da Malta, si succedettero nella protezione delle navi gli Spitfire a corto raggio della R.A.F. Dandosi regolarmente il cambio, gli Spitfire degli Squadron 126, 249°, 185°, 601°, 603°.fornirono la protezione aerea al convoglio e alle unità di scorta, assieme ai Beaufighter del 135° Squadron, facendolo con ottimo successo. E questo sebbene l’aviazione dell’Asse continuasse a fare di tutto, per quanto consentito dai mezzi disponibili, per impedire l’arrivo a destinazione dei due superstiti piroscafi del convoglio, il Troilus e l’Orari, che essendo illesi continuavano a marciare a quattordici nodi.
          Le azioni aeree offensive pomeridiane, furono portate a compimento quasi esclusivamente dagli aerei tedeschi, poiché undici velivoli dell’Aeronautica della Sicilia,  tre  S. 79 e sei S. 84 decollati alle 15.45, seguiti da due Cr. 42 con bombe alari da 50 chili, non trovarono le navi da attaccare.
          Da parte sua il II Fliegerkorps, a iniziare dalle 17.00 e fino alle 19.20, mandò in volo ventotto bombardieri Ju. 88, ripartiti in due ondate, che furono scortate dai caccia Bf. 109 del II./JG.53, e da venti Mc. 202 del 155° Gruppo Caccia al comando del maggiore Fanali.
          Alle 18.10 la prima ondata, costituita da dieci Ju. 88, attaccò in picchiata il convoglio britannico, prendendo di mira, senza riuscire a colpirli, il piroscafo Troilus, il cacciatorpediniere Matchless e il posamine veloce Welshman, che rientrato da Malta dopo aver scaricato il suo carico urgente di benzina e munizioni, alle 16.30 si era ricongiunto alla Forza X. I Bf.100 del II./JG. 53 che scortavano gli Ju. 88, e che in parte erano dovuti rientrare assieme ai venti Mc. 202 del 155° Gruppo per raggiunto limite di autonomia, ingaggiarono combattimento con quattro Spitfire del 249° Squadron, abbattendone due e costringendone un altro ad effettuare al ritorno a Malta un disastroso atterraggio forzato, sfasciandosi completamente.
          Infine, nell’ultimo tentativo per cercare di impedire ai due superstiti mercantili del convoglio britannico di raggiungere Malta, la seconda ondata di bombardieri, costituita da diciotto Ju 88 ripartiti in tre formazioni, non arrivò sull’obiettivo. Essendo senza scorta, verso il tramonto fu costretta ad allontanarsi per l’intervento, di quattro Spitfire del 249° Squadron che, guidati dal capitano P.B. Lucas, abbatterono uno Ju. 88 facente parte di una formazione  di sette velivoli del KGr. 806.
 

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           Nonostante gli attacchi aerei del pomeriggio del 15 giugno fossero stati fallimentari per le forze dell’Asse, il tempo perso nel lungo combattimento con le unità della 7^ Divisione Navale, portò per i britannici ad altre spiacevoli conseguenze. Le navi del convoglio, ridotte ai piroscafi Troilus e Orari, che avrebbero dovuto arrivare a destinazione nel pomeriggio, raggiunsero l’entrata del porto della Valletta durante la notte, con molto ritardo, mentre le unità di scorta della Forza X, che dovevano rientrare a Gibilterra, furono costrette a dirigere verso il Grand Harboor, per rifornirsi a scapito dei magri depositi di Malta. Ne conseguì che al momento in cui le navi della formazione cominciarono a percorrere la rotta di sicurezza conducente al Grand Harbour, si verificò un fatto inaspettato che avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche.
          E ciò avvenne per un errore di manovra, causato dai dragamine che, con i loro divergenti in mare per dragare la rotta, stavano guidando verso l’entrata del Grand Harbour le altre navi procedenti in lunga linea di fila.  Nell’oscurità, uscendo dal canale dragato che conduceva al porto, la formazione navale finì su uno sbarramento minato posato dalle motosiluranti tedesche della 3° Flottiglia. Fu una mezza catastrofe dal momento che proprio sull’uscio di casa affondarono il cacciatorpediniere Kujawiak (polacco) e il dragamine ausiliario Justified (del servizio dragaggio di Malta), e riportarono gravi danni il piroscafo Orari, i due cacciatorpediniere Badsworth e Matchless e il dragamine di squadra Hebe.
         Sebbene due navi mercantili, sulle sei originali del convoglio W.S. 19/Z, fossero riuscite a passare, portando con i loro rifornimenti un certo ossigeno all’esausta piazzaforte maltese, il risultato dell’operazione Harpoon era costato molto caro alla Royal Navy, che nel contempo dovette anche subire una grossa e più cocente umiliazione nel Mediterraneo occidentale.
 

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         In effetti, anche l’operazione Vigorous era nata sotto una cattiva stella, in quanto nei primi due giorni di navigazione il convoglio fu fortemente attaccato da aerei da bombardamento tedeschi, con impiego, da parte del X Fliegerkorps, degli Ju 88 del I. e II./LG.1, del I./KG.54, e degli He 111 del II./KG.100, e da parte del Fliegerführer Afrika degli Ju 87 del II. e II./St.G.1 e degli Ju 88 della squadriglia 10./LG.1. I primi ad attaccare, la sera del 13 giugno, furono i velivoli di una formazione di dodici Ju 88 del I./KG.54, che scendendo in picchiata determinarono il danneggiamento del piroscafo City of Calcutta, il quale dovette essere  dirottato su Tobruch. Nella giornata dell’indomani 14 intervennero tutti gli altri gruppi, che affondarono il piroscafo Aagtekirk e Buthan con gli Ju 87 del II./St.G.3. Un altro piroscafo, il Potaro, troppo lento per poter mantenere la velocità del convoglio, colpito e danneggiato dagli Ju 88 del I./LG.1, fu rimandato ad Alessandria scortato da due cacciatorpediniere.
         Nel frattempo una delle quattro motosiluranti della 10a Flottiglia, la MTB 259 (tenente di vascello R.A. Allan), si trovò in difficoltà di navigazione. A causa delle condizioni del mare molto mosso (forza 4 e 5), ed imbarcando acqua che allagò la sala macchine fu abbandonata dall’equipaggio, raccolto dalla MTB 268 che poi, non potendo sostenere la velocità del convoglio fissata in quattordici nodi, diresse per rientrare ad Alessandria assieme alle altre due motosiluranti della squadriglia.
         A tutto questo si aggiunse la notizia, arrivata dalla ricognizione aerea della R.A.F., che una forte squadra italiana, con due navi da battaglia e incrociatori, era uscita da Taranto e sarebbe stata in vista della formazione navale britannica all’alba dell’indomani, 15 giugno. Sebbene la quantità numerica delle unità italiane fosse nettamente inferiore a quella delle unità di scorta britanniche che proteggevano il convoglio MW.11, il deterrente costituito dai diciotto pezzi da 381 mm del Littorio e del Vittorio Veneto, perfettamente riconosciute dai ricognitori britannici, avrebbe costituito, in caso di contatto balistico, una minaccia che non poteva essere sottovalutata.
         L’ammiraglio Harwood, contando che l’avanzata delle navi italiane sarebbe stata menomata dai nove sommergibili mandati in agguato nel basso Ionio, e forse arrestata dagli attacchi predisposti con gli aerosiluranti e i bombardieri della R.A.F. dislocati a Malta e sugli aeroporti dell’Egitto, rispondendo al contrammiraglio Vian che chiedeva direttive, gli ordinò di continuare la navigazione verso est fino alle 02.00 del 15, ora per la quale, se il Comandante in mare non avesse ricevuta la notizia che l’avanzata della squadra italiana era stata fermata, doveva invertire la rotta. Durante questa manovra le unità di scorta della formazione britannica, trovandosi a manovrare a nord di Apollonia (Cirenaica occidentale), si trovarono esposte ad un attacco notturno di motosiluranti tedesche della 3a  Flottiglia, due delle quali, la S 56 (tenente di vascello Siegrfried Wuppermann) e la S 55 (sottotenente di vascello Horst Weber), rispettivamente colpirono con un siluro il grosso incrociatore Newcastle (capitano di vascello P.B.R.W. William-Powlett), e il cacciatorpediniere Hasty. Il Newcastle, la nave di bandiera del comandante della 4a Divisione Incrociatori, contrammiraglio W.G. Tennant, nonostante una grande falla nello scafo, potendo ancora mantenere una discreta velocità restò in formazione, mentre l’Hasty affondò.
         Nel frattempo gli attacchi sviluppati nella giornata del 15 contro la flotta italiana da parte di aerosiluranti provenienti da Malta e dalle basi egiziane furono portati con decisione e al prezzo anche di gravi perdite, perché frequentemente contrastati dai velivoli da caccia tedeschi (Bf. 109, Bf. 110 e Ju 88C) che, dagli aeroporti della Grecia, di Creta e della Cirenaica, proteggevano le navi, procurando ai velivoli da ricognizione e offensivi britannici parecchi abbattimenti, ed anche diversi gravi danneggiamenti, tanto che alcuni velivoli, che rientravano dalla missione in condizioni precarie, si sfasciarono atterrando alla base. Tuttavia, alle 09.15, nel corso di un primo attacco di nove aerosiluranti Beaufort del 217° Squadron, un siluro, sganciato dal velivolo del tenente pilota A. Aldridge, immobilizzò l’incrociatore pesante Trento (capitano di vascello Leo Esposito), che poi, rimasto arretrato protetto da due cacciatorpediniere che intendevano prenderlo a rimorchio, fu avvicinato e, alle 09.10, finito con i siluri del sommergibile Umbra (tenente di vascello S.L.C. Maydon).
         Poiché gli equipaggi degli aerosiluranti che avevano condotto l’attacco riferirono di aver colpito le due corazzate nemiche, il contrammiraglio Vian ricevete dall’ammiraglio Harwood l’ordine di tornare nuovamente verso occidente. Egli effettuò la manovra, ma fu ancora costretto ad invertire la rotta in quanto era apparso chiaro che la squadra italiana continuava ad avanzare ad alta velocità e si trovava a sole 150 miglia dal convoglio. Tutte queste manovre finirono per attardare il complesso navale britannico nelle pericolose acque tra Creta e la Cirenaica, nel cosiddetto “vicolo delle bombe”, e per farle pagare un forte pedaggio, per una serie impressionante di attacchi aerei, portati da velivoli tedeschi e italiani, provenienti dagli aeroporti di Creta, della Cirenaica e dell’Egeo.
         In uno di questi attacchi, intorno alle ore 10.30, fu danneggiato gravemente l’incrociatore Birminghan, per opera dei bombardieri in picchiata tedeschi Ju. 87 del 3° Gruppo del 3° Stormo Stuka (III./St.G.3 ex II./St.G.2), comandato del famoso maggiore pilota Walter Enneccerus, mentre ad opera degli Ju 88 del I./LG.1 fu affondato il piroscafo Buthan, ( ? ) Poi, alle ore 15.25 dello stesso giorno, trovandosi il convoglio a metà strada tra Tobruk e la costa meridionale dell’isola di Creta, il cacciatorpediniere Airedale (capitano di corvetta Archibald George Forman) fu gravemente colpito durante una  massiccia incursione di trentatré Ju 87 tedeschi del 2° Gruppo del 3° Stormo Stuka (II./St.G.3), comandato dal capitano pilota Kurt Kuhlmey. Centrato da cinque bombe, una delle quali colpì in pieno la nave determinando l’esplosione violenta di un deposito di munizioni da 102 m/m e delle bombe di profondità, e rimasto immobilizzato, e per ordine del contrammiraglio Vian l’Airedale  dovette essere affondato con il cannone dai cacciatorpediniere di scorta Aldenham e Hurworth, dopo averne recuperato gli uomini dell’equipaggio. 
         Mentre nel convoglio si verificavano gli avvenimenti descritti, sempre allo scopo di arrestare la marcia delle navi italiane, queste ultime furono attaccate  verso le ore 10.00 da una formazione di sette bombardieri quadrimotori B. 24 dell’Aviazione dell’Esercito statunitense, da poco tempo dislocati in Palestina. Nel corso del suo attacco a cui parteciparono anche due Liberator del 160° Squadron della R.A.F., i velivoli statunitensi, che erano guidati dal maggiore pilota Al Kalberer, riuscirono  a centrare il Littorio (capitano di vascello Vittorio Bacigalupi) con una grossa bomba, che esplodendo a prora, sulla corazza di una torre di tiro spessa 350 mm, determinò soltanto una grossa proiezione di schegge, ma nessun danno materiale per la nave. La Littorio, essendo la nave di bandiera dell’ammiraglio Iachino, continuò a guidare le altre navi della formazione  verso il complesso navale britannico ad una velocità sostenuta.
         Nel tardo pomeriggio, mentre le navi italiane in base agli ordini ricevuti da Supermarina di non impegnarsi in azioni notturne dirigevano verso nord per portarsi in posizione di attesa presso le coste occidentali della Grecia, per poi eventualmente intervenire il mattino dell’indomani se le navi nemiche avessero continuato la rotta per Malta, comportando, come speravano gli italiani, lo sviluppo un combattimento da prolungarsi per una lunga giornata di luce, i britannici arrivarono all’errata valutazione che il nemico italiani, avendo riportato negli attacchi aerei gravi danni, si stesse ritirando. Pertanto, ritenendo esistessero le premesse per far proseguire il convoglio MW. 11, ora ridotto a disporre di sei navi mercantili, l’ammiraglio Harwood comunicò al contrammiraglio Vian di proseguire la rotta per Malta.  Ma il comandante in mare, che proprio in quel momento si trovava con la sua squadra esposto ad alcuni dei più violenti attacchi aerei della giornata, avendo constatato che il consumo di munizionamento contraereo era tale da non permettere alle sue navi di resistere ad un'altra giornata di incursioni, preferì continuare nella sua rotta per levante.
         Gli attacchi aerei che tanto stavano preoccupando il contrammiraglio Vian, ebbero la loro conclusione intorno alle 18.00, e ciò avvenne mentre il convoglio MW. 11 e la sua scorta, procedendo nella navigazione verso Alessandria con rotta sudest, si trovavano a circa 100 miglia a nord di Tobruch. Si trattò un’incursione coordinata di aerei italiani, a cui parteciparono, con decollo dalla Libia e da Rodi, quindici aerosiluranti S. 79 e otto bombardieri Cant. Z. 1007 bis, e in cui si inserì un attacco di nove bombardieri tedeschi Ju 88 del I./LG.1 (capitano pilota Joachim Helbig), che attaccando in picchiata procurando danni, per colpi vicini, al danneggiato incrociatore Newcastle e alla nave camuffata (ex corazzata) Centurion.
         Gli aerosiluranti italiani, accolti da un formidabile fuoco di sbarramento contraereo e contrastati dai caccia della R.A.F., non conseguirono risultati, perdendo un velivolo, mentre  invece un buon risultato conseguirono gli otto Cant. Z. 1007 bis del 35° Stormo Bombardamento Terrestre, che partiti da Derna erano comandati dal  colonnello pilota Bruno Borghetti. Alle ore 18.06 due bombe, sganciate da alta quota (5.000 metri), caddero vicinissime allo scafo del cacciatorpediniere di squadra australiano Nestor (capitano di fregata Alvord Sydney Rosenthal). A causa di una falla apertasi  nello scafo presso il fumaiolo e che causò l’allagamento della sala caldaie, il Nestor si fermò con gravi danni alle macchine, e poiché non poteva proseguire la navigazione, fu ordinato di affondarlo al cacciatorpediniere Javelin, che nel tentativo di salvarlo lo aveva preso a rimorchio.
         Infine, alle ore 01.27 del 16 giugno, mentre il complesso navale britannico si trovava a nord di Sollum, a metà strada fra l’estremità orientale di Creta e la costa egiziana, l’incrociatore l’Hermione (capitano di vascello Geoffrey Nigel Oliver) venne colpito sul fianco destro da due siluri lanciati dal sommergibile tedesco U-205 (tenente di vascello Franz George Reschke). Con i locali macchine e caldaie e un adiacente deposito allagati e venuta a mancare la corrente, l’incrociatore cominciò ad inclinarsi raggiungendo subito i ventidue gradi di sbandamento, dopo di ché fu necessario ordinare all’equipaggio di abbandonare la nave, che affondò in venti minuti, con la perdita di ottantotto uomini.
         Anche le navi italiane non furono esenti da perdite, perché nel corso di un attacco notturno realizzato con determinazione da cinque aerosiluranti Wellington del 38° Squadron della R.A.F. decollati da Malta, la corazzata Littorio fu colpita a prua da un siluro sganciato dal velivolo del tenente pilota O.L. Hawes. Questa volta il danno alla corazzata, pur non essendo grave, indusse l’ammiraglio Iachino ad ordinare alle sue navi l’inversione la rotta per rientrare a Taranto, destinazione poi confermatagli da Supermarina. Ciò poteva essere determinante per convincere i britannici a ritenere nuovamente aperta la strada per Malta. Ma l’inversione di rotta della flotta italiana, trasmessa dai ricognitori, arrivò all’ammiraglio Harwood quando ormai non poteva più far nulla per riprendere la rotta verso occidente, perché le navi del contrammiraglio Vian si trovavano ormai in piena rotta di ritirata verso Alessandria, e con i depositi di munizioni quasi vuoti, e a corto di combustibile.
         La Littorio, rientrata a Taranto l’indomani, 16 giugno, rimase fuori combattimento per più di due mesi, e ciò finì per avere grosse  e negative ripercussioni nell’ambito di Supermarina, nelle decisioni da prendere per contrastare la flotta britannica nel corso della successiva grande operazione “Pedestal”, che si verificò tra l’11 e il 15 agosto e che è conosciuta in Italia come “Battaglia di mezzo agosto”.
         Comunque fossero state le cause del ritiro delle navi del contrammiraglio Vian, indubbiamente da ricercare, come fonte primaria, sull’intervento delle unità dell’ammiraglio Iachino, questo fatto, stigmatizzato al parlamento di Londra  dal capo dell’opposizione, permise alla flotta italiana,  per la prima ed ultima volta, di poter vantare di aver conseguito, meritatamente,  una grande vittoria strategica.
          Il successo del contrasto navale alle due operazioni britanniche poteva essere completo, e risultare determinante per la sopravvivenza di Malta, se l’incertezza di manovra dell’ammiraglio Da Zara non avesse permesso ai due superstiti piroscafi del convoglio WS. 19/Z di raggiungere l’isola, portandone le scorte essenziali fino al mese di settembre.
          Nel fare un resoconto delle deludenti operazioni Harpoon e Vigorous, constatiamo che le perdite britanniche furono di quantità considerevolmente superiori a quelle riportate dagli italiane, limitate all’affondamento dell’incrociatore Trento, al danneggiamento della corazzata Littorio e del cacciatorpediniere Vivaldi, e al mancato rientro alla base di quarantatre aerei: ventotto italiani e quindici tedeschi.
         Da parte britannica, nelle due operazioni andarono perdute complessivamente quattordici navi, e molte furono danneggiate, anche gravemente. Su diciassette mercantili partiti con i due convogli, sei affondarono durante la rotta (quattro a occidente e due a levante), altre nove, tutte del convoglio di levante, tornarono indietro, e soltanto due  piroscafi della Harpoon arrivarono a Malta trasportando 15.000 tonnellate di rifornimenti. Ingenti perdite riportarono anche le forze navali di scorta, perché furono affondati due cacciatorpediniere e un dragamine ausiliario a occidente di Malta, e un incrociatore, tre cacciatorpediniere e una motosilurante ad oriente dell’isola. Altre unità, e tra queste i grandi incrociatori Liverpool, Newcastle e Birminham, riportarono gravi danni che li posero fuori combattimento per un lungo periodo di tempo, con riparazioni che si svolsero in arsenali lontani dal fronte del Mediterraneo. Inoltre i britannici persero in combattimento una trentina di velivoli, dei quali otto imbarcati sulle portaerei e cinque della R.A.F. di Malta.
          In questa mattanza i meriti maggiori andarono indubbiamente alla Luftwaffe e alla Kriegsmarine, ma anche l’Aeronautica italiana non sfiguro, potendo vantare il grave danneggiamento causato all’incrociatore Liverpool e l’affondamento del piroscafo Tanimbar e dei due grossi cacciatorpediniere di squadra Nestor e Bedouin, quest’ultimo già immobilizzato dal tiro navale. Purtroppo, nessun successo conseguirono i sommergibili italiani, sebbene ne fossero stati impiegati ben ventidue contro i due convogli britannici. Gli unici attacchi portati dal Giada e dall’Alagi a nord delle coste dell’Algeria e della Tunisia, nella giornata del 14 giugno, non avevano conseguito alcun risultato, dal momento che i loro siluri erano stati evitati dalle navi britanniche.
Tuttavia, la Regia Marina, con l’intervento delle sue navi di superficie, fu determinante nel causare le condizioni che portarono alle forti perdite nel nemico ad occidente di Malta, e alla sua ritirata nel Mediterraneo orientale.
         In conclusione il costo pagato dai britannici con le due operazione Harpoon e Vigorous fu alquanto elevato. Tuttavia, l’arrivo a La Valletta di un carico di 15.000 tonnellate di rifornimenti, disperatamente attesi, trasportato dai due superstiti piroscafi del convoglio “WS.19/Z”, permise a Malta di portare le scorte necessarie per sopravvivere  –  che per le razioni dei viveri erano ridotte ad una quantità di appena nove giorni – fino al mese di settembre, anche se restarono particolarmente allarmanti per la continuazione delle operazioni della R.A.F., condizionate dalle deficienze delle scorte di benzina avio, per il mancato arrivo della petroliera Kentucky. Pertanto, l’aver fatto arrivare a  Malta i due piroscafi fu un indubbio successo e, come riconobbero i tedeschi, uno smacco per l’Asse, soprattutto della Marina italiana con la sua 7a  Divisione Navale che, pur impegnandosi nelle acque di Pantelleria in un combattimento con supremazia potenziale di forze, non era riuscita ad impedire alle navi nemiche di raggiungere l’isola.
         Da parte italiana, le cause dell’insuccesso navale di Pantelleria furono giustificate con le abbondanti cortine di nebbia emesse per occultarsi dalle navi britanniche, che avrebbero intralciato l’osservazione delle navi dell’ammiraglio Da Zara. Queste, inoltre, sarebbero state avvantaggiate dal possesso del radar, mancante agli italiani, che avrebbe permesso al nemico di seguire le mosse degli incrociatori e dei cacciatorpediniere dell’ammiraglio Da Zara, e di contrattaccarli. In effetti, mentre le cortine di fumo servirono effettivamente, come era logico, per nascondere le navi convoglio dal tiro delle navi italiane, il radar non servi molto ad agevolare i britannici nelle loro manovre difensive, dal momento che risultarono molto più utili i binocoli e i telemetri, aggiunta all’aggressività dei loro cinque cacciatorpediniere di squadra.
           Inoltre l’errata valutazione di aver conseguito  un grande successo trasmesse dal Comando della 7a Divisione – che segnalò di aver affondato un incrociatore, tre cacciatorpediniere e quattro piroscafi – finirono per trarre in inganno anche Supermarina, il quale, evidentemente male informato dalle notizie che arrivavano in sede, ritenendo fosse stato raggiunto lo scopo di distruggere il convoglio nemico, nel pomeriggio del 15 ordinò a Da Zara di rientrare alla base. Il Duce stesso, rimasto entusiasta dal combattimento sostenuto dalla 7a Divisione, si recò pochi giorni dopo a Napoli e dopo gli elogi distribuì abbondantemente medaglie al Valor Militare all’ammiraglio e agli uomini dei suoi equipaggi, che più si erano distinti.
         Tuttavia, nei giorni successivi Mussolini cominciò ad avere dei dubbi, perché la radio e la stampa britannica, facendo conoscere le forze navali che avevano partecipato alla battaglia e le perdite subite per attacco aereo, ironizzarono abbondantemente su quel presunto successo della 7a  Divisione, che il Duce si vantava di aver personalmente realizzato, ordinando l’uscita delle navi, e che fu smentito anche dalle notizie che arrivavano da Berlino. L’episodio di Pantelleria, dal quale seguì una dura polemica tra Da Zara e Iachino che, con scambio di corrispondenza dai toni polemici, fece notare al Comandante della 7a Divisione i suo molti errori di manovra, determinò negli ambienti tedeschi molta delusione, perché dal punto di vista strategico il successo britannico vanificava tutti gli sforzi profusi dalla Luftwaffe e dalla Regia Aeronautica per neutralizzare Malta, impedendone il rifornimento e di riflesso il rafforzamento della formidabile isola fortezza.
            A causa del  clima polemico che si respirava a Supermarina per l’insuccesso di Da Zara, del quale apparivano, dalle sue relazioni e dalle sue dichiarazioni giustificatrici, le molte lacune tattiche, l’ammiraglio Iachino si sentì in dovere di intervenire in questa polemica. Lo fece con un documento dall’oggetto “Osservazioni sulla Battaglia di Pantelleria” datato 9 gennaio 1943. In esso egli esponeva tutti i suoi concetti critici, sull’aumento di velocità a trentaduer nodi impressa all’inizio del combattimento alla 7a Divisione, che aveva finito per far scadere dapprima i cacciatorpediniere Vivaldi e il Malocello, che si trovavano a poppa dell’Eugenio e del Montecuccoli, e poi anche i tre cacciatorpediniere della 10a Squadriglia Oriani, Ascari e Premuda, che invece li procedevano di prora. E questo avveniva proprio mentre agli incrociatori dovevano apprestarsi a fronteggiare un attacco silurante delle unità nemiche, e nel contempo occorreva impegnare gli incrociatori del nemico, ritenuti da Da Zara almeno in numero pari ai due della sua 7a Divisione.
         Ma quello che soprattutto Iachino contesto a Da Zara era l’impostazione del combattimento. La sua attenzione avrebbe dovuto essere rivolta ad attaccare il convoglio nemico, che cercava di allontanarsi, protetto dalle navi di scorta che sostenevano il combattimento con le unità italiane, e cercare di distruggerlo. E ciò doveva essere fatto mantenendo il contatto con il convoglio, e continuando ad impegnare le forze di scorta che lo proteggevano, fino ad eliminarle e disperderle. Quindi, Iachino considerò, giustamente, nella rottura del contatto e nell’aggiramento a nord dello sbarramento 7 AN, la causa che impedì di realizzare quella distruzione del convoglio britannico alle navi italiane, perché una volta tornate a sud il convoglio non era più in vista.
         Infine, l’insuccesso della Marina italiana a Pantelleria, da molti sotto valutato nella storiografia, vanificò le speranze di Supermarina, che dopo tante delusioni aveva sperato, impiegando a Pantelleria la 7a  Divisione Navale, di conseguire un indiscutibile successo. E ciò anche per dimostrare al Comando Supremo e all’O.B.S. che le forze navali italiane stavano impegnandosi seriamente e in modo redditizio nel blocco di Malta, concordato con il feldmaresciallo Kesselring. Ma in questo caso, purtroppo, l’insuccesso di Pantelleria non era da addebitare all’organo operativo dell’Alto Comando Navale italiano che aveva realizzato, con le forze disponibili, un ottimo piano d’impiego, ma soltanto alle indecisioni ed errori di natura tattica verificatisi nel corso della battaglia.
 

                                                                                        Francesco Mattesini

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LETTERA PRIVATA DELL’AMMIRAGLIO IACHINO INVIATA ALL’AMMIRAGLIO DA ZARA

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OSSERVAZIONI SULLA BATTAGLIA DI PANTELLERIA

 

 

         1°) Velocità e frazionamento della F.N.

 

         Queste due questioni vanno esaminate insieme poiché sono l’uno la conseguenza dell’altra. Ti confesso che le tue argomentazioni in proposito non mi hanno convinto: rimango dell’opinione che era preferibile affrontare il primo urto col nemico a forze riunite anziché sparpagliate, e che perciò era meglio tener bassa la velocità entro i 28 nodi). L’averla aumentata a 32 nodi non mi pare abbia portato reali vantaggi, mentre ha certamente sottratto all’azione, nella prima fase del combattimento, le armi dei 5 nostri CC.TT., proprio quando ve ne era più bisogno per respingere un ardito attacco di siluranti avversarie. In quella fase dell’azione gli incrociatori sono rimasti praticamente soli, poiché i due VIVALDI erano già stati distaccati, ed i tre ORIANI stavano scadendo dalla parte esterna rispetto al nemico, e perciò non prendevano alcuna parte utile alla battaglia. L’inoperosità della X Squadriglia in questa fase è in parte da attribuirsi alla scarsa iniziativa del suo Comandante, ma è certamente stata provocata dall’eccessivo aumento di velocità degli incrociatori.

         Non si deve con questo concludere che la velocità delle navi va sempre subordinata a quella dei CC.TT. che le scortano: le navi possono benissimo abbandonare la scorta per andare alla velocità che risulta più conveniente onde raggiungere un determinato obiettivo tattico, com’è p.es. nel caso di inseguimento del nemico. Ma qui non si trattava di inseguire il nemico, si trattava invece di respingere un attacco silurante e di intercettare un convoglio che camminava al massimo a 14 nodi. Non sembra quindi vi fosse necessità di aumentare la velocità oltre i limiti consentiti dalla scorta; e l’abbandonare questa scorta non poteva verosimilmente facilitare la manovra dei nostri incrociatori nel loro duello coi similari nemici.

         Quanto al vantaggio che la velocità offre a chi è attaccato da siluranti veloci, esso è indubbio, ma non è necessario per questo correre a tutta forza. Il nemico infatti per avvicinarsi, deve necessariamente assumere una rotta convergente, e quindi non può guadagnare sul beta, a meno di grande superiorità di velocità; e anche in questo caso, basta una piccola accostata in fuori (come la Divisione ha fatto per un poco, assumendo rotta 160°) per far decisamente scadere il nemico a poppavia. Quanto poi ad evitare i siluri già lanciati è generalmente sufficiente una piccola accostata, ma soprattutto quando il lancio ha luogo nei settori poppieri. Se si assume infatti velocità-nave di 28 nodi, velocità-siluro di 40, corsa siluro 8000 m., per lanciare su un beta di 120°, occorre avvicinarsi a 3.500 m., e basta un’accostata di 20° da parte del bersaglio per mettere il siluro di poppa ed impedirne sicuramente l’arrivo.

         Anche quindi sotto questo punto di vista, una velocità di 28 nodi si poteva considerare del tutto sufficiente.

 

         2°) Impostazione del combattimento

        

         E’ evidente che in un combattimento, che aveva lo scopo di intercettare e distruggere un convoglio, l’obiettivo principale, e conseguentemente il polo della manovra tattica, era e doveva essere il convoglio. Il criterio tattico della difesa inglese è giustamente stato quello di frapporre continuamente i propri incrociatori fra gli attaccanti e i piroscafi, in modo da sottrarre questi ultimi all’offesa. Da parte delle forze attaccanti l’impostazione del combattimento non poteva logicamente essere che quella di fare il contrario, cioè puntare sul convoglio, e mantenere il contatto con esso fino a che, eliminate e disperse le forze nemiche, lo si sarebbe potuto distruggere. Data tale impostazione, non sembra potesse risultare vantaggioso per noi l’allontanamento per lungo tempo dal convoglio, sia pure per avvolgere la testa della formazione navale nemica, compito praticamente irraggiungibile, (si trattava di due incrociatori veloci), e comunque sterile ai fini dell’obiettivo principale.

         La 7^ Divisione correndo ad alta velocità verso Sud, e poi verso Sud-Ovest, è venuta a perdere del tutto il contatto col convoglio, e si è trovata, fra le 6.30 e le 8.00, esattamente impallata dal nemico rispetto ai piroscafi da intercettare. Una volta perduto il contatto con questi piroscafi, contatto che così fortunatamente si era potuto stabilire alle prime luci del mattino, esso non è stato più ripreso per tutta la giornata, e non si è così potuto conseguire l’obiettivo principale dell’azione.

 

         3°) Fase decisiva del combattimento

 

         A mio modo di vedere, è quella compresa fra le 6.15 e le 8.15 del mattino. E’ in questa fase infatti che si verificano le più vistose avarie sugli incrociatori nemici, e precisamente, secondo le osservazioni fatte dall’EUGENIO:

         - alle 6.15 un incrociatore nemico (tipo SOUTHAMPTON o DIDO) colpito, sbanda di almeno 70°, e l’Ammiraglio lo giudica affondato;

         - alle 6.59 un altro incrociatore più piccolo, colpito, viene coperto da cortine di nebbia: il nemico ripiega allontanandosi, e manda le siluranti all’attacco;

         - alle 7.15 un grande incendio viene osservato in direzione del gruppo nemico tuttora occultato da nebbia;

         - alle 7.17 viene osservato un grande scoppio dietro la cortina nemica.

         A questo punto qual’era l’apprezzamento della situazione che si poteva fare da bordo della Nave Ammiraglia ? Al momento dell’incontro col nemico, all’alba, erano stati chiaramente individuati due incrociatori, uno più grande dell’altro, accompagnati da CC.TT. e naviglio minore di scorta al convoglio. Alle 6.15 l’incrociatore maggiore è stato visto in condizioni di affondamento: rimanevano quindi soltanto quello minore e i CC.TT.. Fra le 6.59 e le 7.17 questo incrociatore è stato visibilmente colpito, e l’incendio con scoppio successivo lasciava sperare nella sua distruzione. Non dovevano quindi, dopo tale istante, rimanere più incrociatori nemici a galla, o al minimo, volendo essere molto cauti nell’apprezzare i danni, doveva essere rimasto un solo incrociatore di piccole dimensioni e seriamente danneggiato. Questo almeno è l’apprezzamento che si poteva fare in base agli elementi raccolti sul momento e sul posto, grazie all’osservazione diretta degli avvenimenti.

         I nostri due incrociatori invece non avevano subito fino a quel momento che danni di lieve entità (un colpo da 120 su ogni nave con pochissime perdite) ed erano in piena efficienza. Dalle 7.17 quindi la relatività delle forze navali in presenza era, o per lo meno doveva essere apprezzata, tutta a nostro vantaggio; e si poteva logicamente sperare che, avendo ancora 12 ore di luce, il nemico sarebbe stato schiacciato o disperso, e il convoglio annientato. Per far questo, per sfruttare cioè il successo iniziale, occorreva, alle 7.23, dopo respinto l’attacco silurante, accostare per N-E anziché per N-W, in modo da mantenere il contatto col nemico, certamente minorato, e avvicinarsi al convoglio che non poteva frattanto essere andato molto lontano. Ancora alle 8.15 vi era la possibilità di portare l’azione a fondo, e conseguire l’obiettivo principale, accostando verso Nord anziché verso Sud. Sono appunto queste accostate, e la decisione successiva di passare a levante dello sbarramento, che hanno portato ad una lunga interruzione del combattimento e hanno consentito al nemico di sfuggire alla nostra ricerca e di raggiungere Malta.  

 

         4°) Azione del VIVALDI e del MALOCELLO

 

         L’attacco di questi due CC.TT. contro il convoglio protetto da forze superiori è stato condotto molto brillantemente e probabilmente ha conseguito qualche risultato concreto. Nel disimpegnarsi, il VIVALDI, già sotto il fuoco concentrato di molte unità nemiche, è stato colpito, e dopo poco si è fermato. Il MALOCELLO lo ha difeso abilmente, ed ambedue hanno energicamente reagito colle artiglierie e coi siluri: ma è certo che se il nemico, preponderante di forze, non avesse, per ragioni tutt’ora sconosciute desistito dall’attacco di quei due CC.TT., essi ne sarebbero usciti molto malconci.

Tuttavia non vi è nulla da osservare su quanto fatto dal VIVALDI e dal MALOCELLO in quella fase dell’azione, né tanto meno in quella successiva, in cui il VIVALDI fu miracolosamente tratto in salvo. L’osservazione che, dopo il lancio contro il convoglio, il gruppo VIVALDI avrebbe dovuto allontanarsi in direzione diversa da quella presa verso Sud, non ha grande consistenza, sia perché bisognerebbe dimostrare  che, prendendo una diversa direzione, avrebbe evitato di essere colpito, sia perché, logicamente, il gruppo tendeva alla riunione cogli incrociatori. E la rotta che, meglio di ogni altra agevolava la riunione era certamente quella verso Sud, tanto più che era presumibile che prima o poi i nostri incrociatori sarebbero ritornati a Nord per avvicinarsi al convoglio, polo della manovra.

 

         5°) Azione della X Squadriglia

 

         E’ stato già notato che questa Squadriglia non ha brillato di grande iniziativa nella prima fase del combattimento, quando rimasta indietro per l’aumentata velocità degli incrociatori, ha assistito passivamente all’attacco silurante nemico senza intervenire che con pochissime salve di artiglieria. Né più brillante è stato il comportamento di questa Squadriglia quando, alle 6.16, è stata mandata verso Nord a prestare assistenza al gruppo VIVALDI. Essa infatti, dopo invertita la rotta, si è trovata faccia a faccia con i CC.TT. nemici che, ultimato l’attacco alla nostra formazione, ripiegavano sul grosso.

         Scambiandoli per un nuovo gruppo nemico, e ritenendo che fra essi vi fosse un incrociatore, la Squadriglia ha continuato ad accostare assumendo rotta a Sud-Est, ed ha poi pensato bene di passare a levante dello sbarramento per arrivare da Nord sul punto ove il VIVALDI aspettava la sua assistenza! Fortunatamente il nemico aveva desistito dall’attacco al VIVALDI, e questo, accompagnato dal MALOCELLO, aveva potuto riprendere la rotta a Nord, in modo che il congiungimento colla X Squadriglia ha potuto aver luogo alle 7.55 in acque ormai tranquille.

         In complesso non mi pare che la condotta del Comandante PONTREMOLI abbia brillato durante l’azione: secondo me, egli non ha dimostrato in questa occasione molta iniziativa né molto spirito combattivo.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  F/to Iachino                                                                                                                      

9 Gennaio 1943-XX

Edited by Francesco Mattesini
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