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Ricordi di un palombaro in tempo di guerra


Long John Silver
  • di Pasquale Semeraro

     

    Articolo tratto dal Bollettino AIDMEN n°20 - aprile 2002

     

    La Seconda Guerra Mondiale ha visto uomini eroici sfidare le fredde e oscure acque del mare con la sola protezione di uno strato di tela gommata e un pezzo di vetro davanti agli occhi. Se alcuni sono diventati famosi in tutto il mondo per l’unicità e l’audacia delle loro azioni, altri hanno rischiato la vita ogni giorno, adoperandosi per espletare quelle incombenze necessarie alla normale attività dei nostri porti delle navi italiane.

    Di questi uomini non si sa molto e poco è stato scritto, un modesto tributo vuole essere questo breve articolo sotto forma di ricordi raccontati da uno di questi palombari, Francesco Romanelli, nato a Rodi Garganico il 01 Aprile 1917, congedato con la classe 1917 con il grado e qualifica di Sergente Palombaro – matricola 29974

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Il ricordo

 

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L’incrociatore GIOVANNI DELLE BANDE NERE

 

Già nel 1939 ero alle armi e dal 1940 ero palombaro nella Base Navale di Tripoli (Libia) e trattenuto alle armi per motivo precauzionale Nazionale. Il 10 Luglio 1940, fui inviato dal Comando Superiore del Porto di Tripoli a disimpegnare l’ancora dal corpo morto dell’incrociatore Giovanni dalle Bande Nere; ad operazione compiuta, immediatamente lo stesso prese il mare con un altro incrociatore del quale non ricordo il nome. Al mattino dell’11 Luglio 1940, nei pressi dell’Isola di Creta (Mar Egeo) ci fu una battaglia navale, tra i nostri due incrociatori salpati dal porto di Tripoli e quattro unità navali inglesi. L’incrociatore del quale non ricordo il nome, colpito, affondò, mentre il Bande Nere si rifugiò nel porto di Bengasi, dopo aver sbarcato morti e feriti. Trascorsi alcuni giorni, fece ritorno nel porto di Tripoli, dove arrivò alle 02.00 del 22 Luglio 1940. Al mattino fui inviato sottobordo dell’incrociatore per la verifica di tutta la carena, compresi eliche, timoni, prese mare e kingston, ed inoltre otturai alcune falle con cunei di legno di abete rientrando a lavoro finito. Tutto quanto detto risulta dal Brevetto con la dicitura: “Per imbracare ancore et corpi morti” “Ricerca e ricupero di un’ancora” “Verifica e ricupero ancore” “Verifica eliche e timone” “Prese zinchi e carenaggio”.

 

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La torpediniera CALIPSO

 

La data di questo racconto non la ricordo, ma ricordo un particolare certo, il giorno in cui fui ricoverato con “prognosi riservata” nell’ospedale di Tripoli. Era la stessa notte in cui affondò latorpediniera Calipso (5 dicembre 1940 n.d.r.), durante la battaglia navale avvenuta nel Golfo della Sirte. Quella stessa notte, la città di Tripoli subì un violentissimo bombardamento aereo e io, insieme a tutti i marinai della Base Navale, prendemmo rifugio nel silos a poche decine di metri dalla Base stessa. Premetto che la Base Navale era al centro di un obiettivo militare strategico; intorno a noi caddero moltissime bombe e una di queste cadde così vicino ai muri perimetrali del silos, 4 o 5 metri, che scaraventò molti di noi in tutte le direzioni. Lo spostamento d’aria fu tale che io stesso venni scaraventato, non ricordo a quale distanza, e finii in una botola profonda più o meno 5 metri, dalla quale arrivai sul fondo in posizione seduta; cosa sia successo appresso non lo ricordo.

Ricordo bene quando rinvenni. Accusai un fortissimo dolore alla schiena e alla fascia addominale, venni portato in barella in infermeria, e subito inviato dal nostro Dottore, un Capitano Medico, con urgenza all’Ospedale Militare. Giunsi in ospedale verso le 09.00 e ricoverato. Circa un’ora dopo ci fu la visita ai ricoverati da parte dei medici; tra questi vi era un Colonnello Direttore che, giunto nei pressi del mio lettino, mi scrutò e chiese ai medici del reparto cosa avessi. Un medico rispose che avevo mal di schiena. Premetto che, quando giunsi in Ospedale, non fui nemmeno visitato. A questa risposta, autoritario il Colonnello disse al medico di guardia di dimettermi. A queste parole mi ribellai e lui mi chiese qual’era la mia destinazione; gli risposi che era la Base Navale e mi disse che poteva concedermi solo 10 giorni di riposo e che lo stesso riposo lo potevo fare alla mia destinazione. Successivamente, in tono pacato e paterno, aggiunse che non sarebbero trascorse due ore, che sarebbero arrivati 70 marinai tutti gravemente ustionati e che servivano letti, quindi tutti i ricoverati meno gravi sarebbero stati inviati alle loro destinazioni, tra questi io. A queste parole, accettai la sua decisione e, caricato su un’autolettiga, fui riportato alla Base Navale.

Dopo qualche giorno di riposo, ripresi a lavorare, in quanto assillato da tantissime richieste di intervento. Premetto che, da Sirte, al confine con la Tunisia, ero l’unico palombaro e spesso, per mancanza di personale che mi assisteva nelle immersioni, per potermi sbrigare più in fretta mi immergevo indossando solamente la cintura con i piombi, che pesavano 30 kg, in modo da potermi trainare la stessa lancia da palombaro.

 

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La nave trasporto tedesca DUISBURG

 

Il 18 Febbraio 1941, mentre le Nostre truppe indietreggiavano sul Fronte Cirenaico, arrivò nel porto di Tripoli, al rimorchio, il piroscafo germanico Duisburg, perché colpito da siluro; esso andò in secca semi affondato fuori dal porto a ridosso delle mede, era quasi il tramonto. Il 19 Febbraio 1941, appena giorno, il Comando Superiore della Base Navale, m’invio sul posto e mi ordinò di mettermi a disposizione del Comando del piroscafo germanico sopra detto. Portatomi sottobordo con la motobarca, il Comando del piroscafo (Comandate Tedesco e Secondo Italiano) mi ordinarono di ispezionare la carena colpita da siluro e riferire in merito alla falla subita ed altri eventuali danni esistenti.

La falla risultò di notevole dimensione; si estendeva dall’altezza della paratia a proravia della Sala Macchine fino alla paratia a proravia della stiva numero 1 e quindi la stessa allagata. Anche la stiva numero 2 era allagata e squarciata per un’altezza di circa 9 metri. Lo squarcio andava dalla chiglia fino alla linea di galleggiamento, mentre si estendeva per circa 12 metri di lunghezza. All’interno si vedeva tutto un groviglio di cannoni anticarro ultimo tipo, centinaia di motociclette, automezzi officina e tantissime munizioni.

Risalii a galla e riferii il tutto al Comando del piroscafo, essi mi ordinarono di ritornare sul fondo per ispezionare il punto d’incaglio della carena e la natura stessa del fondale. Ridiscesi, ed incominciai un’attenta ispezione, portandomi da proravia verso poppavia, il fondale era tutto ricoperto di alghe che mi superavano abbondantemente in altezza. Mi facevo strada carponi e con le braccia muovevo le stesse alghe per poter meglio visionare il fondale. Giunto nelle vicinanze della falla, urtai qualcosa con l’elmo dello scafandro, mi alzai per vedere di cosa si trattasse e vidi una grossa sfera gialla agganciata al paracadute; una MINA! Ma si trattava di una mina magnetica, con una sola spoletta a mo’ di penna stilografica, molto lucente. Queste mine erano state lanciate la notte precedente, a seguito di un bombardamento. Risalito a galla e toltomi l’elmo, il Comando del piroscafo mi domandava se avevo novità. Li portai subito a conoscenza dei fatti e spiegai anche che la mina magnetica, di grosse dimensioni, si trovava a circa 3 metri dalla carena in direzione della plancia Comando verso poppavia. Dopo aver effettuato la visita allo scafo, il Comando del piroscafo mi disse che potevo rientrare e riferire il tutto al Comando Superiore del Porto; cosa che feci appena giunto alla Base Navale di Tripoli.

 

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Una delle prestigiose firme sul libretto di immersione di Romanelli

 

Il mattino seguente il piroscafo fu rimorchiato ed ancorato nel porto sotto Sciarasciat e la mina lasciata e non più disinnescata. Il 21 Febbraio 1941, fui nuovamente inviato a bordo del piroscafo per iniziare il recupero di tutto il materiale esistente e recuperabile nelle stive allagate. Alla Direzione del recupero fu inviato un Capitano di Corvetta, del quale non ricordo il nome; questi mi ordinò di recuperare con priorità i cannoni anticarro, perché da questi dipendevano le sorti della Libia. Dalla mastra del boccaporto della stiva si vedeva galleggiare un miscuglio di olio e nafta fuoriusciti dai doppifondi. L’odore era così forte che avrebbe potuto facilmente causare qualche incendio, ed allo stesso tempo immergermi in quel miscuglio oleoso avrebbe compromesso lo stesso scafandro già logorato dal tempo e dalle numerose immersioni. Il Comando del piroscafo, e con esattezza il Secondo, si adoperò affinché delle sentinelle facessero osservare il divieto di fumare o provocare scintille attorno alla mastra stessa, e non si doveva più perdere tempo, data l’urgenza ed il bisogno che si aveva del materiale bellico che laggiù giaceva. Il Capitano di Corvetta, mi guardò e disse: «A recupero avvenuto ti proporrò per la Medaglia d’Oro vista la pericolosità dell’operazione.» Mi immersi senza perdere altro tempo, nella stiva non si vedeva assolutamente niente, era tutto un groviglio di rottami e non, iniziai ad imbracare tutto quello che potevo, per prima cosa le motociclette. Queste erano equipaggiate con delle mitragliatrici sistemate sui manubri, molte erano del tipo sidecar, e nel sidecar stesso vi erano sistemate molte munizioni; ne imbracavo tre o quattro per volta e, quando la gru del pontone le issava, qualcuna si sganciava e ricadeva nella stiva; per evitare di essere colpito, prendevo riparo a ridosso del corridoio della stessa.

Al terzo giorno di lavoro, nel segnalare di poter issare sul pontone una imbracata, involontariamente restai impigliato con la mano destra nella imbracatura; non riuscendo a fermare l’operazione, mi stavano issando sopra con tutta l’imbracata, ma grazie a uno scossone, mi liberai e mi accorsi di una lacerante ferita alla mano destra. Riemersi e, resomi conto che parte della falangetta dell’anulare era malamente conciata, rientrai alla Base Navale, con la mano sanguinante. Recatomi in infermeria, il Capitano Medico voleva operarmi e amputarmi la parte restante, affinché la ferita guarisse in minor tempo; mi opposi, venni medicato e fasciato, e mi riposai per un giorno. Venne a trovarmi il Capitano di Corvetta addetto al recupero e mi pregò affinché riprendessi le operazioni. Il mattino seguente, nonostante la mano ferita e fasciata, indossai lo scafandro, facendomi aiutare in quanto impossibilitato, e nonostante il dolore e con l’aiuto di Dio, ripresi ad immergermi. Il mezzogiorno, per poter risalire a galla, mi issarono sopra con il pescante della gru del pontone non potendo adoperare la mano destra. Le ore di immersione non si contarono più, ma nonostante tutto, riuscii a portare a galla tutto il materiale esistente nella stiva numero 2, riguardante: n. 450 motociclette con sidecar pieni di munizioni e mitraglie,; più di 300 cannoni anticarro e munizioni; n. 4 autofficine oltre a tutte le munizioni della stiva numero 1. Finito il lavoro a bordo del piroscafo Duisburg, il Comando Superiore della Base Navale di Tripoli, mi destinò ai lavori che giornalmente si presentavano.

 

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La nave ospedale TEVERE affondata fuori dal porto di Tripoli

 

Il 17 Marzo 1941, alle ore 17.15 andò a fondo la nave ospedaliera Tevere, affondò là dove il 19 Febbraio 1941, nell’ispezionare la carena del piroscafo germanico Duisburg, avevo segnalato la presenza di una mina magnetica, della quale non fu più fatta alcuna ricerca e neppure disinnescata. Il Comando Superiore del Porto di Tripoli mi assegnò alle operazioni di soccorso e recupero, mi fu ordinato di recuperare prima i morti, tutti i viveri, e tutto il materiale medico ospedaliero.

Dopo alcuni giorni di lavoro, arrivò sul posto delle operazioni un ufficiale superiore, con il grado di Tenente Colonnello, con una squadra al suo comando; questi aveva avuto l’incarico di recuperare la nave. Premetto che, nonostante militare, ero a servizio della ditta Ernesto Lolato, con questi avevo già preso tutte le misure inerenti la falla e in cantiere avevano dato corso alla costruzione del materiale per essa occorrente. La falla, di notevole dimensione, si estendeva dalla paratia a proravia della sala macchina, in parte schiodata dal doppiofondo, fino alla paratia a poppavia della stiva numero uno, l’apertura tra le due paratie era di 14 metri di lunghezza e aveva un’altezza di 9 metri; detta falla si apriva, come in gergo marinaro si dice, “a coda di topo” dall’aletta antirollio di dritta fino a pochi centimetri dall’aletta antirollio di sinistra, quindi la nave era “spezzata”. Come sopra precedentemente detto, nel cantiere della ditta, si stava preparando un tampone di legno sagomato, un metro più lungo della stessa falla e alcune curve o ginocchi, della stessa sagoma della paratia della sala macchina e della paratia della stiva numero uno, in modo da poter fissare il tampone e fare la colata di cemento affinché la falla venisse chiusa e la nave prosciugata; era in bellissimo lavoro, già precedentemente messo in opera dalla ditta Lolato per il recupero di altri natanti.

Il Tenente Colonnello fece sospendere tutti quei lavori e mi prese al suo servizio; per alcuni giorni fui destinato alla chiusura degli oblò e una mattina, durante una pausa di lavoro, si avvicinò il Colonnello, mi guardò, mi alzai e lo salutai; questi si fermò e domandò a che punto ero con la chiusura degli oblò, in quanto essendo la nave sbandata sulla dritta, il lavoro si rendeva alquanto difficile perché bisognava lavorare, come in gergo si dice, “a pallone”, e se non si era allenati questo tipo d’immersione diveniva difficile e pericolosa. Gli risposi che il lavoro procedeva bene, ma il problema più grosso era un aereo che sorvolava costantemente la zona alla ricerca di mine da far scoppiare. Domandai con garbo come si potesse lavorare con la paura che qualche mina scoppiasse; di rimando, con altrettanto garbo, si mise la mano al collo e tirò fuori la piastrina identificativa. Mi domandò se l’avessi anch’io, gli risposi affermativamente, mi chiese il numero di matricola e io gli dissi che il numero era 29974; esso di rimando rispose che dopo il 74 veniva il 75 e che morto io veniva un altro, perciò morti noi verranno altri, e quindi la guerra continuerà. A queste risposte, si girò e andò via.

 

Lavoravo allo stremo delle forze e senza scafandro, ormai logorato e marcito per la nafta, senza avere più appetito per la nausea e il lezzo dei cadaveri che giornalmente recuperavo. Feci domanda di andare “volontario al fronte”. Il Comandante del Comando Superiore del Porto di Tripoli cercò di dissuadermi in tutti i modi, e dopo tanta insistenza, mi assegnò alla DOSLO, che era un gruppo operativo al comando del Capitano di Corvetta Signor Colotti, al quale serviva l’operato di un palombaro per lo sminamento del porto di Bengasi, appena liberato. Partii con il suo gruppo, portandomi dietro tutto l’occorrente che poteva servire a distruggere tutto ciò che avrebbero potuto prendere le truppe inglesi in caso di ritirata delle truppe italiane. Continuai il mio lavoro dal 31 Aprile 1941 al 31 Maggio dello stesso anno, giorno in cui fui colpito da insolazione e rimpatriato. Durante il trasferimento da Bengasi a Tripoli, stordito dall’insolazione, venne smarrito il mio zaino con tutti i documenti e tra questi anche il Libretto delle immersioni, sul quale vi erano annotate tutte le operazioni subacquee effettuate dal 24 Settembre 1940 al 9 Ottobre 1941 e la copia del brevetto da palombaro. Il 29 Ottobre 1941 partii per Zara (Croazia) dove rimasi fino all’armistizio.

 

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Tabella di immersione usata dai palombari. Da notare i tempi di lavoro permessi e le profondità raggiunte con attrezzatura del peso tra i 70 e i 90 chilogrammi

 

Ero appena arrivato a Zara (Croazia), proveniente da un po’ di riposo, dopo essere stato rimpatriato dalla Libia. Ero appena sbarcato dal piroscafo che mi aveva trasportato da Fiume a Zara e vidi un capitano della marina, un certo Fasanella di Peschici, che mi disse di andare subito ad armare la lancia da palombaro, che si trovava molto lontano. Erano annegati 2 carabinieri mentre andavano a rilevare la guardia e nessuno sapeva dove fossero. Il porto di Zara era lungo circa 3 chilometri e largo 500 metri, quindi perlustrarlo tutto avrebbe richiesto molto tempo. Ormai era buio e occorrevano informazioni che avrebbero aiutato il recupero; rimandammo l’operazione al mattino seguente.

Il giorno seguente mi recai dal comandante del gruppo e feci una piccola indagine dalla quale risultò che i due carabinieri, mentre andavano a rilevare i colleghi, oltrepassarono il ponte di pietra che univa le due sponde, ma non erano mai arrivati dall’altra parte. All’ingresso del ponte erano accese due luci appena visibili, una rossa a sinistra e una verde a destra. I due carabinieri, probabilmente, avevano confuso il significato delle luci. Intuita la dinamica dell’incidente, andai dal Capitano Fasanella, il quale oltre a complimentarsi per l’indagine mi diede l’autorizzazione alle ricerche. Vicino al ponte si era assiepata molta gente che, vedendo il palombaro, aveva intuito che si trattava di un annegamento. A Zara queste cose accadevano spesso. Mi immersi prima a sinistra del ponte, ma non trovai niente; mi spostai a destra del ponte e di un moletto, lì vidi i piedi del primo carabiniere, dietro di lui il secondo. Li raccolsi entrambi e riemersi. Alla vista di quel triste spettacolo molta gente svenne. Il lavoro per me era terminato, mentre sistemavano i corpi si avvicinò il comandante dei carabinieri che congratulandosi mi chiese da dove venivo, quando risposi Rodi Garganico sorrise e dopo alcune battute scoprimmo di essere parenti alla lontana.

La notte precedente l’11 aprile 1942, c’era stata una collisione tra un motoveliero sconosciuto e la motobarca Nuova Alba che trasportava sabbia, mercanzie varie, pelli, pollame, uova e molto pesce. A bordo vi erano anche un militare slavo che dormiva sotto prora e una donna con le doglie diretta all’ospedale di Zara. La motobarca andava verso Zara in zona proibita alla navigazione, il motoveliero investitore non si fermò. La motobarca, investita di poppa a sinistra, affondò in meno di un minuto, adagiandosi su un fondale di 29 metri. Arrivati nel punto di affondamento trovammo molte barche che ci aspettavano e che avevano pedagnato il relitto.

La prima cosa da fare era recuperare i morti. Mi vestii e mi immersi subito. Appena sotto la superficie vidi la donna imbrigliata al paranco dell’albero, il volto guardava verso l’alto, addosso aveva uno scialle nero dai lunghi filamenti rimasti impigliati nella puleggia del paranco, impedendole di salire alla superficie. Poco più sotto trovai il bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. La donna nello sforzo di risalire alla superficie aveva partorito il suo bambino. Rimasi tanto impressionato da sentirmi male! Presi un pezzo di corda e sistemai il bambino tra le gambe della donna sotto la veste, non volevo che la gente in superficie assistesse a questa triste scena. Ritornai sul fondo a cercare il secondo cadavere. Si trattava di un omone, per estrarlo dal boccaporto dovetti lavorare molto. Con uno sforzo sovrumano riemersi con i due cadaveri. In superficie mi aiutarono a liberarmi tra urla e pianti di disperazione.Finito il recupero dei cadaveri tornammo a terra. Fummo ricevuti con piacere dalla famiglia proprietaria della barca affondata; la famiglia, molto numerosa, si era riunita per la cena in una lunga tavolata. Mi fecero sedere in mezzo ai due più anziani, tra i commensali il padrone della barca era molto arrabbiato. La donna anziana al mio fianco mi chiese se avrei visitato ancora la sua barca. In quel momento si aprì la porta, alcuni soldati armati entrarono ma ci rassicurarono, uno di loro disse “Niente paura in questo momento, finito il lavoro la guerra tra noi continuerà”. Il giorno dopo comincia a liberare il relitto dal carico di sabbia, tolsi un madiere per lato e in due giorni rimossi la sabbia. Una volta alleggerita con l’aiuto di 2 motobarche e un motoveliero di poppa la trainammo a Zara, facendo un tragitto di 40 miglia. La barca venne riarmata e tornò al suo proprietario.

Il 1 Maggio 1942 il piroscafo Eneo, sovraccarico di passeggeri civili e militari, lanciò il segnale di soccorso e, per evitare l’affondamento, riuscì a portarsi in secca, con una stiva allagata e con l’acqua che lambiva le caldaie, allo scoglio di Ulbo, a circa 50 miglia dal porto di Zara (Croazia). Fui inviato sul posto con la mia lancia da palombaro rimorchiata da una motovedetta; giunto sottobordo, la gente da bordo del piroscafo invocava aiuto per paura che lo stesso affondasse. Subito mi misi a disposizione del Comando di bordo e, dopo aver ricevuto ordini sia dal Comandante che dal Primo Macchinista, mi immersi per ispezionare la carena.

Lo scafo era adagiato sugli scogli e per fortuna la falla in posto accessibile e riparabile. Si trattava di una lamiera che si era schiodata e ritorta per la lunghezza di circa un metro. Ritornato a galla, con il Primo Macchinista, decidemmo il da farsi, subito mi mise a disposizione dei bulloni e una chiave adatta, ridiscesi e con molta pazienza e maestria, riuscii a mettere la lamiera al suo posto, calafatai il tutto servendomi di una coperta tagliata a strisce e con del sevo misto a carbone impermeabilizzai completamente le giunture. Così fatto, la falla fu completamente chiusa. Tutta quanto detto risulta dal Brevetto con la dicitura “Otturare la falla al piroscafo Eneo”. Il piroscafo, con tutto il suo carico umano, proseguì e raggiunse Zara, dove il giorno successivo partì per Fiume, destinazione – lavori -. Tutto questo, era normale, in tempo di guerra…

 

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La motonave CITTA' DI TUNISI

 

La sera dell’11 Agosto 1943 arrivò nel porto di Zara la motonave italiana Città di Tunisi, al Comando di un Capitano di Corvetta italiano e un Secondo tedesco, sovraccarica di soldati italiani che rientravano. La motonave aveva tutte le sovrastrutture camuffate affinché assomigliasse più a un piroscafo ed era armata con dei cannoni di legno. La nave, nell’entrare in porto, incappò con le sue due eliche, nello sbarramento posizionato sull’imboccatura, sbarramento composto da catene, galleggianti, reti metalliche, speroni e salmoni di circa 100 kg. Il groviglio formatosi attorno alle stesse eliche era enorme, tale che queste erano completamente nascoste. Il mattino seguente, 12 Agosto 1943, alle ore 05.00, dopo essermi immerso e ispezionato la carena, risalii a galla e riferii ai due Capitani l’accaduto e quello che secondo il mio modesto parere bisognava fare. Consigliai affinché mi procurassero alcune cesoie per tagliare le reti metalliche, i cavi ecc. e dei seghetti per poter disimpegnare eliche e mozzi dalle catene dello stesso sbarramento. Il materiale aggrovigliatosi doveva quantificarsi in molti e molti quintali. Il Capitano italiano mi domandò quanto tempo occorresse per disimpegnare le eliche da quel putiferio e gli risposi che il lavoro era lungo, laborioso e molto difficile, in quanto solo. A questo punto mi disse: «A bordo della Petroliera vi sono assiepati 5500 soldati che rischiano la vita, si tratta di salvarli». Non capii, ma lui sicuramente sapeva che cosa sarebbe accaduto se non fossi riuscito a liberare le eliche della nave.

Il Comando dell’Ottava Armata requisì buona parte del materiale che mi venne messo a disposizione e, nonostante tutto, iniziai subito il lavoro. Lavorai ininterrottamente per tutto il 12 Agosto, fino alla mezzanotte, e il giorno seguente fino alle ore 12.00. A metà lavoro, il Comandante italiano mi chiese a che punto fossi e gli risposi che l’elica di sinistra era libera e che restava da disimpegnare l’elica di dritta. Mi strinse le mani, mi chiese nome e cognome e disse: «Ti proporrò al Ministero della Guerra per la Medaglia d’Oro se riuscirai disimpegnare anche l’altra elica». Come sopra detto, il 13 Agosto 1943 alle ore 12.00 terminai il lavoro. Avevo tutte le mani doloranti e sanguinanti per le molteplici ferite che mi ero procurato a causa dei molteplici pungiglioni che si erano formati. Il mattino seguente, la Città di Tunisi riprese il mare. Tutto quanto detto risulta dal Brevetto con la dicitura “Per disimpegnare le ostruzioni dalle eliche della motonave Città di Tunisi”. Subito dopo l’armistizio, di quel Comandante italiano non seppi più niente…

 

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Pagina del libretto di immersione di Romanelli. Immersione di esame per il superamento del corso di palombaro, notare la permanenza di 2 ore a 40 metri nell'ultima immersione

 

L’8 Settembre 1943 , il giorno dell’armistizio, ero di servizio come palombaro militare nel porto di Zara (Croazia) e il pomeriggio del 7 Settembre, dopo aver terminato un lavoro subacqueo, come ricompensa ebbi un permesso di 5 giorni più viaggio da poter trascorrere con i miei familiari a Rodi Garganico (Foggia). Premetto che, anche se militare, ero già ammogliato e che precedentemente avevo fatto rimpatriare mia moglie, mandandola a casa da mia madre, vista quale situazione si stava profilando giorno dopo giorno.

Dell’armistizio non si sapeva ancora niente, ma tutti i piroscafi che da Zara facevano servizio per Fiume e Ancona erano stati soppressi in attesa di ordini superiori, e io, nonostante avessi in tasca un permesso per poter raggiungere i miei familiari, non sapevo che cosa fare. Intanto, dall’ultimo Bollettino di guerra emanato via radio appresi che truppe nemiche, dopo aver occupato tutta la Sicilia, erano sbarcate in Calabria, e che avvenivano scontri fra avanguardia nemica e retroguardia italiana. Di queste pochissime parole dette dal cronista durante il Bollettino mi feci una bruttissima idea e in coscienza pensai che le nostre Truppe non avrebbero più fronteggiato l’avanzare dell’invasione e che la disfatta era alle porte, quindi la RESA! Frastornato e conscio di quello che stava accadendo, presi una bicicletta e mi diressi verso l’idroscalo, da dove giornalmente partiva un idrovolante per l’Italia. Questo poteva portare 22 passeggeri. Trovato il capo scalo, certo signor Frati, che conoscevo da tempo e al quale avevo fatto molti lavori subacquei per conto dell’idroscalo senza mai voler percepire alcun compenso, gli chiesi la possibilità di essere aviotrasportato fino ad Ancona. Questi, rammaricato, disse che per il trasporto passeggeri bisognava avere il nullaosta del Vice Governatore. Pensò sul da farsi e mi chiese quale motivazione poteva addurre nel caso riuscisse ad avere il permesso per farmi imbarcare. Gli risposi che mio padre stava molto male e che avrei voluto vederlo in vita prima che la malattia lo avesse stroncato. Subito si apprestò a telefonare al Vice Governatore e, dopo un nutrito andirivieni di parole, fui autorizzato, in via del tutto eccezionale, a prendere l’idrovolante. Mancavano solamente 40 minuti alla partenza, feci una corsa al mio Comando, mi feci autorizzare a prendere l’idrovolante e il Comandante, signor Fasanella, cittadino di Peschici (Foggia) quasi compaesano, dopo avermi autorizzato mi chiese se al rientro a Zara potevo portargli un po’ di limoni. Con il signor Fasanella non ci siamo mai più rivisti…

Partito da Zara con l’idrovolante, sbarcai ad Ancona, e da Ancona a San Severo, fra treni in partenza e non, fu una vera odissea. Arrivai il mattino seguente, 8 Settembre 1943, alle ore 10.00. L’Armistizio mi raggiunse durante questo trasferimento, trovai San Severo completamente deserta, la popolazione diradatasi per paura che i tedeschi, in ritirata, la facessero prigioniera. La Garganica, trenino che serviva da collegamento tra i paesi garganici, composto da tre vagoni tutti stracolmi di gente, era fermo in stazione. La confusione era tale e tanta che non si riusciva a capire se partisse o meno. Suonò l’allarme aereo, presi la valigia e cercai riparo tra gli alberi di ulivo di fronte alla stessa stazione ferroviaria. Stormi di aerei americani bombardarono ripetutamente un campo di aviazione tedesco che si trovava lungo la strada Foggia-San Severo. Le bombe caddero a centinaia, l’allarme durò a lungo e, man mano che mi allontanavo da quel posto, trovai, sempre fra gli alberi di ulivo, un camminamento scavati a zig-zag dai nostri soldati, profondo un paio di metri e largo uno. Pensando di trovarmi in zona sicura e attanagliato dalla fame (non mangiavo da più di trenta ore), accesi con dei ramoscelli d’ulivo un fuocherello, affinché potessi riscaldarmi un pesce secco e salato che mi ero preso prima della partenza da Zara.

Accesi il fuoco, mi allontanai, e vi ritornai solamente quando non si vedeva più nessun filo di fumo; posai il pesce sulla brace e nuovamente mi allontanai; dopo ancora un po’ di tempo vi ritornai; il pesce era cotto, lo presi e lo mangiai con avidità. A un certo punto non riuscivo più a ingoiare e, nell’alzarmi in piedi, notai, sopra il camminamento, alcuni ortaggi: erano pomodorini; ne presi tanti e li mangiai, liberandomi così dal nodo che il pesce secco mi aveva formato in gola. Questi furono come un dono di Dio venuto dal cielo. Raggiunsi Rodi e quindi i miei familiari, dopo di che da sbandato rientrai a Taranto, dove continuai il mio lavoro come Capo palombaro sull’isola di San Paolo.

 

Il tutto risulta dal Libretto delle immersioni. Mi congedai e affrontai la triste realtà della vita civile; lavorai moltissimo, continuando a fare il palombaro, e man mano che gli anni passavano, aumentavano i dolori alla colonna vertebrale. Nel mese di Ottobre del 1966 mi recai a Pescara dove risiedeva un mio cugino medico (dottor Luigi Leccese) il quale mi accompagnò a una visita ortopedica. Questi, fattomi alcune lastre e resosi conto di quello che molti anni prima avevo subito, restò molto sorpreso e mi disse che mi ero scampato una paralisi agli arti inferiori.

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