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Meccanizzazione nel carbonamento e nello sbarco di rinfuse


Giuseppe Garufi
  • di Gian Carlo Poddighe

     

    Nella storia del carbonamento va ricordato come il progressivo e rapido aumento di dislocamento e velocità dei piroscafi si tradusse agli inizi del ‘900 in un costante incremento dei consumi.
    Il problema principale fu quello dei rifornimenti, molto più facile da risolvere per inglesi e francesi che avevano già predisposto, ciascuno, anche quali potenze coloniali, una capillare rete globale di stazioni di carbonamento.

     

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    Pontone Menada, vista frontale.

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Riguardo alle navi, più che aumentare le riserve di combustibile imbarcato, a scapito del carico pagante, occorreva ricorrere a frequenti carbonamenti, ma questi erano a loro volta condizionati dai tempi necessari, soprattutto se in porti coloniali e non attrezzati.
La marina mercantile italiana aveva poi un ulteriore problema, dipendendo ovunque dalle forniture di carbone inglesi; problema acuto i piroscafi sulle linee per il Sud America, che dovevano rifornirsi di quantità non indifferenti di combustibile alle Canarie o alle Isole di Capo Verde, in porti aperti dove spesso bisognava aspettare un miglioramento delle condizioni meteo per poter effettuare il rifornimento.
Il problema era molto sentito sui transatlantici che erano costretti a carbonamenti negli scali intermedi, con disagi per i passeggeri a bordo e costi notevoli sia di accosto sia relativi all’ improduttività nei tempi di sosta necessari.
Vanno anche considerati i tempi di attesa (ammessa la pronta disponibilità) per l’affiancamento di chiatte e /o l’accosto ai moli carbone (con rifornimento generalmente su un solo lato).

 

Sorse pertanto l’idea di creare un supporto dedicato per i piroscafi italiani operanti sulle linee per il Sud America, con una stazione di carbonamento di proprietà delle Società armatrici impegnate su tali rotte; lo strumento opportuno poteva essere la creazione di una società (partecipata tra gli altri da N.G.I., Veloce ed Italia navigazione) che si occupasse di detti rifornimenti.
Obbiettivo non facile, in quanto in ogni scalo di fatto esisteva una privativa/esclusiva per società locali, ed altrettanto difficile in quanto in realtà interessi inglesi controllavano tutti i rifornimenti ed il commercio del carbone in Italia, in primo luogo Henry Coe, che fu poi tra i fondatori della storica Coe&Clerici).
Dopo varie considerazioni e prove pratiche la scelta cadde su Dakar in Senegal e le limitazioni francesi furono superate costituendo una società di diritto francese, "Senegal Societè d'Approvisionement".
La sfida non era solo quella di disporre del soggetto legale, e dei depositi, ma anche quella dei mezzi adeguati, con l’ obbiettivo di ridurre i tempi di imbarco del combustibile, che avevano il tallone d’ Achille nella prima movimentazione, ossia nel prelievo dai depositi, sia che fossero cumuli su moli sia che fossero su chiatte (i tempi di smistamento a bordo erano di fatto incomprimibili, nel caso di imbarco sui ponti e dai ponti, salvo che per i piroscafi passeggeri dove si fece largo ricorso a portelli a murata, sistema che tra l’ altro lasciava liberi i ponti per l’ uso esclusivo dei passeggeri).
Per gli armatori italiani (ed i soci della società operante a Dakar) le soluzioni tecniche, e la costruzione di mezzi di servizio, erano facilitate dagli stretti rapporti, spesso una vera commistione famigliare, tra proprietà dei cantieri navali e società di navigazione.
La prima misura fu quella di adottare e generalizzare il sistema di imbarco del combustibile con portelli a murata, la seconda fu quella di poter effettuare carbonamenti rapidi indipendentemente dalla disponibilità di moli attrezzati, possibilmente in rada.
A questo scopo Enrico Menada, figura preminente dell’armamento italiano, ideò dei natanti specializzati, che come sequenza operativa si rifacevano ai sistemi tipici della movimentazione del carbone in miniera, carrelli su rotaia in galleria ed elevatori verticali a fune per i pozzi di estrazione.

 

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Pontone elevatore sistema Menada

 

Adottati i portelli a murata il successivo passo fu quello del loro pieno utilizzo, ossia dell’imbarco contemporaneo in tutti gli accesi ai carbonili, operazione difficoltosa da chiatte o molo con il sistema manuale con ceste o sacchi.
Occorreva a questo punto standardizzare nel possibile il posizionamento dei portelli, misura di fatto possibile solo all’ interno di una stessa compagnia di navigazione ed in simbiosi con i cantieri costruttori.
Queste premesse sono alla base del sistema Menada, ma ne costituirono anche la limitante per la diffusione.

 

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Carbonamento del piroscafo Umberto con due pontoni Menada per lato

 

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Carbonamento del piroscafo Siena con un solo pontone per lato

 

Rispetto al sistema Temperley inglese la meccanizzazione dell’imbarco con il sistema Menada poteva avvenire solo su percorsi verticali, mentre i meccanismi (le torri) non avevano possibilità di traslazione longitudinale.
Il sistema Menada era basata su chiatte standard della portata di circa 800 tonn di carbone, non autopropulse ma dotate di caldaia e macchina a vapore per l’azionamento dei macchinari.
Ciascuna chiatta costituiva un deposito di carbone di pronto impiego, sistemato in stive che erano vere e proprie tramogge per il caricamento di carrelli che erano portati a scivoli posizionati sui carbonili con apparati elevatori, detti “torri (elevatori meccanici, inizialmente due per chiatta poi aumentati a tre).
Un sistema che, come già citato, riprendeva i concetti tipici dei carrelli di miniera, con relativi elevatori.
Uno dei vantaggi era disporre di depositi “pronti”, i pontoni, che potevano adattarsi all’ ormeggio della nave, evitando alla stessa tempi di attesa per indisponibilità di moli.
I cumuli di stoccaggio potevano essere ubicati in aree meno pregiate, muovendo i pontoni si poteva far ricorso a diversi fornitori, i pontoni potevano essere riforniti e preparati nei tempi morti tra una sosta e l’altra dei piroscafi di linea.
Altro vantaggio era quello di ridurre enormemente il personale di manovra, sia a terra che a bordo delle chiatte, utilizzando il caricamento dei carelli per gravità, che una volta elevati all’ altezza degli scivoli e bilanciati per la loro sospensione erano facilmente scaricati su scivoli.
La ditta costruttrice si vantava di ridurre in questo modo i tempi usuali di carbonamento ad un terzo.
Ogni torre aveva due canali con relativi scivoli che si potevano usare in contemporanea o indipendentemente; l’importante era che la nave da rifornire avesse non solo un sufficiente numero di portelli, ma anche a distanze (interassi) ed altezze corrispondenti a quelli delle torri della chiatta.
Si trattava quindi di un sistema rigido, e questo ne costituiva la limitante principale, rispetto al sistema inglese Temperley.
I vantaggi, peraltro fondamentali, era quelli di poter portare il carbone direttamente nei carbonili e di evitare l’accosto a posizioni predeterminate, a moli fissi o galleggianti per il rifornimento su un lato solo, mentre nel sistema Menada il combustibile già predisposto sulle apposite chiatte (all’ epoca definite “piatte”) si adattava all’ ancoraggio più facile e rapido della nave da rifornire, ed il rifornimento poteva avvenire su ambedue i lati.

 

L’ altro aspetto, negativo, di rigidità del sistema era che la distanza tra i portelli dei carbonili doveva essere di circa 23 metri (74 piedi), e questo era una limitante costruttiva dei piroscafi.
L’ elevata altezza delle torri permetteva, a piena capacità di rifornire i portelli laterali, ma in caso di necessità scaricare il combustibile in boccaporti in coperta, o sulla coperta stessa.
Nel caso della piena compatibilità tra sistemi di rifornimento ed unità ricevitrice (come nei casi delle navi della NGI predisposte già in fase costruttiva) ciascuna torre aveva una capacità di trasferimento di 30 T/hr, ed il cantiere costruttore vantava la possibilità di arrivare ad imbarcare da ciascun pontone (tre torri) sino a 200 t/hr in totale (molto dipendeva dalla pezzatura).
Il sistema Menada aveva anche notevole flessibilità di imbarco di differenti tipi di carbone e di differenti pezzature, particolarmente vantaggioso nel caso di carbone Cardiff di grandi pezzature e notevoli difficoltà all’ imbraco (nel caso tradizionale spesso doveva essere trattato a colpi di mazza, con grande perdita di tempo).

 

Il sistema Menada non risulta mai essere stato adottato dalla Regia Marina, né come sistema portuale né come sistema di bordo, malgrado che esistano prove documentate (di cui non si sono riuscite a rintracciare le valutazioni conclusive) e malgrado che la società costruttrice dei pontoni utilizzasse ampiamente queste referenze.
Per la loro promozione i costruttori, riguardo alla Regia Marina, hanno fatto ampio ricorso a prove di carbonamento effettuate su Nave Sardegna, accennando anche ad una prova (con mare mosso) con Nave Sicilia (mare mosso comunque nel golfo di La Spezia e non in mare aperto).
A parere dello scrivente potrebbe trattarsi di prove effettuate a la Spezia sfruttando i pontoni Menada in approntamento per il trasferimento in Senegal

 

Come riflessione, del tutto teorica, viene da chiedersi come sarebbe stato il trasferimento della flotta russa verso Vladivostok se un fosse stato a disposizione un sistema del genere (magari a rimorchio, se non preposizionato) ed in minor scala quale ne sarebbe stato il vantaggio per Von Spee.

 

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Prove di carbonamento della RN Sardegna da pontone Menada

 

Il sistema Menada era comunque un sistema portuale, basato su chiatte opportunamente dislocate, sistema e uso che nulla ebbe a che vedere con la sua installazione sulle grandi unità, Milazzo e Volturno, quelle di maggior portata del mondo al momento della costruzione: la sua adozione riguardò sempre ed esclusivamente la gestione del carico e la rapidità del suo sbarco, evitando di inviare personale in stiva: non fu mai concepito né valutato come sistema di rifornimento navale, come impiego per collier di squadra come quelli che erano già in servizio nella US Navy.
Il sistema nella sua installazione a bordo di navi, concepito, orientato e promosso come soluzione “auto-scaricante per rinfuse”, stranamente non venne preso in considerazione per una sua evoluzione come rifornimento in mare (né al di là delle esperienze citate dai costruttori per usi pubblicitari, relative a alle Regie Navi Sardegna e Sicilia, si ha notizia di suo impiego da parte della Regia Marina neppure per servizi in porto o in rada).
D’ altra parte la sua adozione (a bordo di navi e non di pontoni) fu tardiva (1916/1917) quando già l’impiego del carbone come combustibile navale era in rapido declino.
Di fatto, anche se fu utilizzato (e forse a non piena capacità) da altre compagnie – più come ripiego e necessità che come routine – il sistema Menada trovò impiego quasi esclusivamente negli scali e nella logistica delle linee regolari della NGI (porti italiani, Senegal, Buenos Aires, molo di New York).
Per la Stazione di Dakar vennero costruiti in Italia sei pontoni Menada, che vennero rimorchiati da La Spezia al Senegal, mentre per l’Argentina (e probabilmente gli Stati Uniti) si trattò di costruzioni locali con impiantistica su licenza.

 

L’ idea di adattare il sistema ed installarlo a bordo di grandi navi portarinfuse venne all’ autodidatta Emilio Menada, comunque inventore geniale, a seguito degli eccellenti risultati economici della società di gestione della stazione di carbonamento di Dakar.

 

Per quanto geniale, riguardo all’ uso a bordo come dotazione fissa di navi portarinfuse, il sistema era molto complicato impiantisticamente ed avrebbe funzionato (per tutte le rinfuse) soltanto se gli standards tanto costruttivi quanto di servizi portuali fossero stati progressivamente adottati su larga scala.
Purtroppo né la cantieristica italiana né gli armatori italiani avevano la taglia ed il potere di imporre tali standards, ed il sistema Menada non ebbe molto popolarità cadendo presto in disuso (di fatto con la dissoluzione/trasformazione della NGI).

 

Il sistema Menada, basato sullo slogan “il tempo è denaro” mirava solo a ridurre i tempi, anche a costo di un maggior impiego di manovalanza (che veniva distribuita altrimenti che in stiva).
I vantaggi del sistema risiedevano in semplice concetto: individuata nella filiera del lavoro di scarico la criticità delle operazioni in stiva, l’intervento manuale non doveva riguardare la stiva ma essere spostato in altra area.

 

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Sezione trasversale schematica sia del Milazzo sia di un pontone Menada che mette in evidenza la conformazione inferiore delle stive e la possibilità di caricamento dei vagoncini in galleria per gravità, la loro elevazione in bozzi e lo scarico per rovesciamento, un sistema tipico delle miniere

 

Se in terra (con i pontoni Menada) la manovalanza era quella tipica portuale, il sistema adottato a bordo creava certamente problemi per la consistenza dell’equipaggio (per quanto all’ epoca sottopagato, con un costo complessivo minore di quello del fermo nave): l’ armamento per le “torri” (ciascuna dotata di almeno un argano) era numeroso, sia per la gente in coperta sia per quella che nel punto di massima elevazione doveva gestire il rovesciamento dei vagoncini, mentre contemporaneamente – per quanto non direttamente in stiva – era necessario disporre di personale in chiglia per il controllo del traffico e delle emergenze dei vagoncini.
Indipendentemente dalle operazioni la manutenzione di tutto il sistema era ovviamente complicata ed onerosa e richiedeva personale preparato.
Non sono riuscito a trovare ruoli equipaggio, ma da una valutazione sommaria e prudenziale, sul tipo Milazzo (e senza armare appieno tutte le torri) occorreva disporre di turni di circa 150 persone, e non poteva trattarsi di un turno unico in quanto per scaricare 14/15000 tonnellate di rinfuse si impiegavano circa 50 ore: anche se nei turni si fosse potuto impiegare in parte manovalanza portuale, la consistenza del personale di bordo doveva essere preponderante e quindi molto numerosa.
L’ eccessiva speranza nei risultati del sistema portò probabilmente ad un sovradimensionamento delle prime unità, Milazzo e Volturno, con le loro 20300 tonn di dislocamento ed oltre 14000 t di portata probabilmente fuori scala per i tempi: l’ esperimento, come già detto, al di là della breve vita operativa delle unità, non superò la fase di “case study” (lo era ancora nel 1934!) né suscitò entusiasmi, il concetto di OBO o multipurpose non prosperò ancora per decenni, le dimensioni delle navi portarinfuse, ed in particolare carboniere, rimasero condizionate dalle prassi ed attrezzature tradizionali dei porti.
Curiosamente il Milazzo, nella sua brevissima vita operativa fu più utilizzato come nave da carico generale che come portarinfuse, e molto meno come carboniera.
Non si hanno pertanto valutazioni economico/gestionali del sistema nel suo insieme e meno sull’ uso estensivo.

 

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Milazzo a New York, probabilmente nel luglio 1916

 

Conclusioni: un’innovazione complicata e costosa.
Emilio Menada era prima un comandante marittimo e poi un’armatore di successo, non un ingegnere navale. Eccezionali le sue intuizioni sui traffici e sulla gestione delle navi, accorto nel vendere unità al momento del massimo valore e trattare la costruzione di nuove.
Per quanto riguarda la costruzione delle navi da lui fortemente volute, le portarinfuse Milazzo e Volturno, geniale – ed in linea con i nuovi indirizzi di traffici e merci - fu la soluzione di compensare i maggiori costi di costruzione adibendo i grandi volumi di spazi morti che si rendevano disponibili per la conformazione a tramoggia delle stive non per zavorra ma come cisterna regolari di olio combustibile, fino a 4000 T., una portata del tutto considerevole per l’epoca. Le casse zavorra erano sistemate solo agli estremi, prua e poppa.
Si trattò di una soluzione costruttiva complessa e costosa, per la quale non si poté neppure valutare la redditività indotta dei sistemi automatici di scarico (il carico era sempre di tipo tradizionale): soluzione costruttiva e forse eccesso di dotazioni ed apparati in coperta che ne limitarono l’accettazione generale e la replica.

 

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Disegno schematico del sistema Menada di scarico rinfuse sulle SS Milazzo e Volturno

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