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I SETTE DELLO ZARA

 

[uNA NUOVA “PERLA” DI ENRICO CERNUSCHI]

 

In uno stupefacente articolo, naturalmente in negativo, pubblicato “purtroppo” dalla “Lega Navale Italiana” (vedi in internet “I sette dello ZARA”), il “fenomenale e vulcanico” Enrico Cernuschi ha fatto un'altra delle sue scoperte, sostenendo che in base ad un documento britannico, datato 5 gennaio 1945, si afferma che nella Battaglia di Capo Matapan, “da parte inglese, furono registrate: “Ourlosses – A few hits by gunfire”, ovvero: “Perdite nostre:pochi uomini colpiti da proiettili andati a segno”. E qui imbastisce tutto un retroscena fantastico che i lettori dovrebbero leggere, per rendersi conto della banalità dell’articolo. E Cernuschi commenta:

 

Tutti i corrispondenti di madrelingua inglese d’Oltremanica e d’Oltreoceano interpellati hanno con-cordemente osservato, con notevole stupore, che il significato di questa frase può essere inteso tra le due e le cinque cannonate. Siamo, pertanto, davanti ad almeno un paio di colpi in pieno (ovvero non “near miss”, ma “direct hits”) incassati quel giorno dalle unità della Royal Navy, laddove tutte le storie ufficiali e ufficiose britanniche, per tacere della memorialistica, hanno sempre ripetuto, dal 1941 a oggi, che le unità inglesi impegnate in quell’occasione nel Mediterraneo orientale non subirono danni di sorta. Ci sono, purtroppo, poche speranze in merito al rinvenimento di un ulteriore documento rivelatore di fonte britannica. Il Reportin questione, infatti, dopo aver ricordato il fatto che nessuno degli estratti da cui è tratta l’informazione in parola era mai circolato (“...had any circulation”) al di fuori dei corridoi dell’Ammiragliato, soggiunge, infatti, che il diario originale da cui proveniva l’informazione in parola era stato, per buona misura, incenerito."

 

Il mio neretto da un classico esempio di come Cernuschi interpreta la Storia per far colpa sugli ignari. Arrivando alla conclusione, nel capitolo “SPARI NEL BUIO”, l’autore dell’articolo scrive:

 

Zara e  Fiume [che erano stati illuminati dai proiettori delle navi britanniche] furono subito colpiti con conseguenze rovinose e risolutive. A questo punto la reazione della mitragliera binata da 37/54 dello Zara deve essere stata necessariamente indirizzata contro l’unico bersaglio a portata, ovvero i due proiettori del  BarHam. Il tiro “a manichetta” (ossia dirigendo a occhio il fuoco, visibile per via delle codette luminose dei proiettili traccianti) di quell’impianto, durante la notte illune, con mare calmo e visibilità molto scarsa, deve aver contato nella sua pur breve ultimaazione (il fuoco dell’arma poteva disporre di 92 raffiche da 6 colpi, tanti erano i caricatori contenuti nella riservetta di fuoco immediato situata vicino all’impianto), una o più d’una delle quali particolarmente fortunate che devono aver devastato l’area tra i due proiettori della corazzata, sul torrione, dove operava il numeroso personale addetto alla direzione del tiro, alle comunicazioni e alla condotta nautica della unità sparso tra il ponte di comando, la sala a carteggio, la bussola, la stazione segnali e il suo riposto, locali questi tutti privi di protezione a differenza di quella prevista a bordo delle appena ammodernate Valiant e Queen Elizabeth, entrambe dotate, proprio in vista di queste evenienze, di una parziale protezione antischegge. Subito dopo questa raffica fortunata, che secondo la logica sarebbero gli ormai famosi “A few hits by gunfire”, il Barham, come un gigante momentaneamente accecato  [addirittura] da uno sciame di calabroni avventatisi sul suo volto, dovette accostare a dritta, uscendo di formazione e costringendo, di conseguenza, il Valiant a cambiare bersaglio e a battere lo Zara al suo posto.”

 

Praticamente, con queste sue elucubrazioni, il Cernuschi trasforma il disastro italiano di Matapan in una vittoria tattica, dal momento che il presunto tiro della mitragliera dello ZARA avrebbe costretto le corazzate britanniche a cambiare di rotta. Colpi a bordo delle navi britanniche non ve ne furono, come risulta da tutti i seri rapporti sull’episodio. Nessuna mitragliera dello ZARA apri il fuoco sul nemico, perché altrimenti i dettagliati rapporti compilati dall’ammiraglio Iachino, dopo il rientro dalla prigionia dei naufraghi della 1a Divisione Navale liberati dai tedeschi nel maggio 1941 a Creta, e in particolare la successiva narrazione che ne fece nell’immediato dopoguerra “La Commissione d’Inchiesta Speciale della Marina” (CIS), non avrebbero esitato a parlarne, mettendo in risalto, come era doveroso, quell’avvenimento. Vediamo invece come da parte mia ho narrato l’episodio dell’affondamento dell’incrociatore ZARA e del cacciatorpediniere ALFIERI, nel mio libro “L’Operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan”, edito dall’Ufficio Storico della Marina Militare nel 1998, composto da 740 pagine delle quali 396 costituita da documenti originali (fotografati) italiani e britannici. Per una migliore e scorrevole lettura non riporto le note a fondo pagina:

 

 

LA SORTE DELLE UNITA’ DELLA 1^ DIVISIONE NAVALE

 

1° - AFFONDAMENTO DELL’INCROCIATORE “ZARA”

 

A completamento  dello svolgimento dell’azione navale notturna, descritta nel modo in cui era stata vissuta da parte britannica, vediamo ora nel dettaglio quale fu la sorte delle sette navi della 1^ Divisione Navale dell’Ammiraglio Cattaneo, che furono sorprese dal tiro delle navi nemiche, in particolare da quello delle corazzate il cui effetto iniziale fu di natura particolarmente distruttiva. Ha scritto al riguardo l’ammiraglio Cunningham in “Odissea di un marinaio”:Il FIUME ricevette due fiancate da 381 della WARSPITE e una della VALIANT; lo ZARA quattro fiancate della WARSPITE, cinque della VALIANT e cinque della BARHAM. L’effetto di quelle salve, ciascuna delle quali di sei o otto proietti del peso singolo di quasi una tonnellata non si può descrivere”.

 

Nelle “Considerazioni” della sua relazione A.580/S.R.P., inviata a Supermarina, il 30 maggio 1941 (vedi Documento n. 143), l’Ammiraglio Iachino imputò il disastro notturno di Capo Matapan alla sorpresa sviluppata dal nemico, che impedì una qualsiasi reazione da parte delle navi italiane. Egli, infatti, scrisse:Lo scontro notturno è avvenuto di sorpresa per le nostre unità, mentre ha potuto essere perfettamente predisposto anche nei dettagli da parte del nemico. Questo fatto, e la mancanza dello schermo di cc.tt. in scorta avanzata, hanno messo la 1^ Divisione in condizioni di netta inferiorità nei riguardi della apertura del fuoco. I colpi nemici sono arrivati a bordo prima che le nostre unità avessero potuto nemmeno realizzare di che cosa si trattava: le esplosioni dei colpi di grosso calibro, l’accensione immediata dei proiettori e di gran numero di illuminanti hanno contribuito a stordire il personale e a paralizzare ogni istinto di iniziativa. I danni gravissimi  fatti  dalle  prime  salve  hanno distrutto  i  collegamenti  fra le  armi  e le stazioni di direzione e puntamento, in modo che neanche i cannoni  che erano carichi hanno potuto far fuoco. La fase distruttiva è stata rapidissima e violentissima, il che spiega come nessuna delle nostre unità abbia potuto sviluppare alcuna seria reazione: solo l’ALFIERI ha sicuramente sparato e lanciato dei siluri, dopo essere stato immobilizzato dal tiro nemico. [il neretto e mio] Il contegno di tutti a bordo delle unità colpite è stato magnifico come sempre, sia nel tentativo di salvare le navi sia al momento dell’abbandono, sia infine sulle zattere nella lunga lotta con le lunghe sofferenze materiali e morali”.

 

Nei pochi istanti che precedettero l’inizio del fuoco nemico, l’attenzione a bordo dello Zara era rivolta di prora alla ricerca del Pola, ormai considerato vicino sia in plancia ammiraglio sia in plancia comando dell’incrociatore, le cui vedette davano un contemporaneo avvistamento di prora a sinistra, ove fu visto accendersi un very rosso. Ad esso seguì l’ordine, impartito dall’ammiraglio Cattaneo, “di stare pronti a diminuire la velocità”. Quindi, ritenendo, come in effetti era, che il very rosso fosse un segnale fatto dal Pola per indicare alle navi amiche la sua presenza, lo Zara accennò una breve accostata a sinistra, ed iniziò una trasmissione con il lampeggiatore Donath azzurro per mettersi in contatto con la nave danneggiata. Nello stesso istante, mentre il comandante dello Zara, capitano di vascello Luigi Corsi, comunicava alle due macchine dell’incrociatore di rallentare il numero dei giri, e veniva iniziata una trasmissione per r.d.s. diretta al Pola e che cominciava con la parola “accendete...”, la nave ammiraglia della 1^ Divisione Navale fu investita, come riferì il capitano di corvetta Arrigo Trallori, “da luce di proiettori” ed apparvero “sulla sinistra sagome di grosse navi con luci di riconoscimento rosse e rosso arancione”, e sulle quali furono individuate “le vampe dei colpi in partenza”. Il comandante Trallori vide i proietti “in arrivo sul Fiume”, con grandi fiammate che illuminavano anche la parte poppiera dello Zara, il quale pochi secondi dopo fu anch’esso investito dalla prima salva sparata dalla corazzata Valiant.

 

La “salva - riferì Trallori - colpì la torre uno in pieno rasandola al piano di coperta: contemporaneamente tutta l’incasellatura della plancia ebbe un sussulto violentissimo, quasi  si dovesse  sradicare: diversi  uomini ed io ne traballammo. Allo scoppio dei colpi ne seguì una  violenta proiezione di schegge che raggiunsero moltissimi [uomini] della stazione D.T. ed in pieno l’armamento del complesso da 100/47 e dell’obice di prora a sinistra decimandoli”. Pochi istanti prima che le navi britanniche aprissero il fuoco, dallo Zara furono anche intraviste due luci bianche al traverso a sinistra. Il 2° Direttore dal Tiro, tenente di vascello Francesco Ferrari, dette l’allarme, poi ripetuto alle torri del 203, alle quali fu anche ordinato “di  far  mettere  in  moto  i  motori, caricare e seguire gli indici elettrici”. Ma non ve ne fu il tempo perché, all’arrivo dei primi colpi di grosso calibro, a bordo mancò l’energia elettrica; ne fu possibile passare al tiro autonomo, ordinato dal 1° Direttore del Tiro, mettendo in moto i gruppi elettrogeni, perché la prima salva nemica arrivò a bordo con effetti devastanti. Fu colpita in pieno la torre n. 1 da un primo colpo che mise fuori uso anche la torre n. 2, già armata e rifornita: fu centrata da un altro grosso proietto la plancia all’altezza delle colonnine di punteria, delle quali fu messo fuori combattimento quasi tutto il personale ; infine, un terzo colpo, dopo aver devastato il centro nave, penetrò in sala macchina, bloccando la motrice di sinistra.

 

Nel frattempo lo Zara aveva ricevuto l’ordine di accostare a dritta e di mettere le macchine a tutta forza. Per effetto del timone e della macchina di dritta, inizialmente portata alla massima velocità, l’incrociatore accostò invece con la prua sul nemico. Ma in questa fase fu colpita da una seconda salva d’artiglieria sul lato dritto, le cui granate completarono l’opera di distruzione della nave facendo esplodere la caldaia n. 5. Ne conseguì che anche la macchina di dritta, cominciò a diminuire lentamente i suoi giri fino a fermarsi del tutto. In tal modo lo Zara, prima di arrestarsi con la prora all’incirca per nord, continuò a manovrare per qualche minuto con leggero abbrivio in avanti. Intanto, erano state subito attuate tutte le disposizioni necessarie per fronteggiare la situazione, in particolare l’incendio sviluppatosi nella torre n. 1, in seguito al quale il locale del 1° corridoio si era riempito di fumo e di vapore. Il comandante dell'incrociatore, capitano di vascello Corsi, nel tentativo di spegnimento aveva anche ordinato di allagare il deposito di munizioni sottostante. L’ordine, regolarmente trasmesso dalla Centrale al tenente del Genio Navale Marchese, non poté essere eseguito perché nel frattempo il comandante in seconda dello Zara, capitano di fregata Vittorio Giannattasio, riferendo che era esplosa la caldaia n. 5 ed era immobilizzata la macchina di prora, comunicava di prepararsi a far saltare la nave, la cui situazione appariva ormai disperata. Contemporaneamente il Comandante della 1^ Divisione e il capitano di vascello Corsi ordinavano al personale che non aveva incarichi particolari di riunirsi a poppa dell’incrociatore, ormai fermo e sbandato. I due alti ufficiali, che si erano impegnati in ogni istante, in un primo tempo per mantenere l’ordine e la calma e in un secondo tempo per dirigere l’opera di salvataggio degli uomini “con grande sangue freddo e sprezzo del pericolo, poiché il bastimento stava per saltare”, una volta constatato che non vi era più nulla da fare per salvare lo Zara  ordinarono agli  uomini di  abbandonarlo,operazione che si verificò dopo che l’ammiraglio Cattaneo aveva gridato “Viva il Re - Viva lo ZARA - Viva l ‘Italia”.

 

L’incrociatore affondò dopo circa venti minuti, verso le 00.30 del 29 marzo, per l’esplosione del deposito di prora determinato dalle mine fatte brillare dal comandante Giannattasio e dal sottotenente CREM Grosso, che in tal modo accelerarono la distruzione della nave la cui galleggiabilità appariva ancora buona. Lo Zara, in seguito allo scoppio dei depositi, affondò istantaneamente, trascinando nell’abisso molti uomini che non avevano avuto il tempo di allontanarsi dalla loro nave. Con l’unità scomparvero l’ammiraglio Cattaneo e il capitano di vascello Corsi, che erano stati visti calarsi in mare per ultimi, mentre sicuramente sacrificarono la loro vita nel brillamento delle mine il capitano di fregata Giannattasio e il Sottotenente Grosso. Parte dei naufraghi furono recuperati nel corso della giornata del 29 marzo da tre cacciatorpediniere britannici, altri il 1° aprile dalla nave ospedale Gradisca. Questi ultimi in condizioni di assoluto sfinimento per aver bevuto acqua di mare per calmare la sete, cosa che aveva dato luogo a varie forme di squilibrio mentale che determinarono il maggior numero di perdite umane.

 

 

3° - AFFONDAMENTO DEL CACCIATORPEDINIERE “ALFIERI”

 

Dalle relazioni delle varie commissioni d’inchiesta della Marina che nell’immediato dopo guerra esaminarono, sulla scorta delle deposizioni dei naufraghi tornati dalla prigionia e dei rapporti già esistenti, le manovre già effettuate dalle unità di scorta della 1^ Divisione Navale a partire dal momento in cui gli incrociatori Fiume e Zara si trovarono sotto il fuoco delle corazzate britanniche, risulta che esse non ebbero il tempo per abbozzare un pur minimo tentativo di reazione.

 

Ciò d’altronde confermava quanto l’ammiraglio Iachino aveva scritto, dopo aver esaminato le dichiarazioni dei superstiti recuperati dalla nave ospedale Gradisca, nel suo rapporto del 30 maggio 1941 spedito a Supermarina; giudizi poi sostanzialmente confermati nel 1946 nell’opera “Gaudo e Matapan”, in cui ribadiva:Vi fu dunque quella notte sulle unità della 1^ Divisione una vera e propria paralisi delle volontà e delle iniziative, provocata dall’improvvisa e tremenda sorpresa. Anche sui Ct. infatti, sebbene le artiglierie fossero tutte armate e pronte ad entrare in azione come era stato prescritto per la navigazione notturna in tempo di guerra sulle siluranti, essi furono sul momento totalmente paralizzati dalla sorpresa che non spararono nemmeno un colpo di cannone e non tentarono di attaccare il nemico con il siluro, l’arma classica dei Ct. nelle ore notturne. Tutti i quattro Ct. accostarono subito a dritta cercando di coprirsi con cortine di nebbia artificiale, e non si resero esatto conto di quel che stava succedendo, soverchiati come furono subito dal tiro nemico e abbagliati dai fasci dei proiettori diretti su di loro”. Di fronte alla reazione di molti ufficiali sottufficiali e comuni che avevano partecipato all’azione notturna del 28 marzo 1941 sulle siluranti della prima divisione navale, e che non condivisero, specie quelli dell’Alfieri le opinioni dell’ex Comandante in Capo della Flotta di una “paralisi delle volontà e delle iniziative” a cui sarebbe stato soggetto tutto il personale di quelle navi, l’ammiraglio Iachino, in “La sorpresa di Matapan”, rettificò in parte il suo giudizio scrivendo:

 

I quattro caccia che seguivano la Divisione furono anche essi colti di sorpresa dall’improvviso apparire del nemico e dallo scatenarsi delle grosse artiglierie contro i nostri incrociatori. Essi avevano gli armamenti dei cannoni e dei lanciasiluri al loro posto, ma rimasero così colpiti da quell’improvviso e inaspettato avvenimento che non riuscirono a rendersi conto di quello che era avvenuto. Può darsi che da principio, essi abbiano pensato ad un possibile equivoco sorto tra unità nazionali, perché anch’essi non avevano la minima idea che grosse navi nemiche potessero essere così vicine. Comunque l’incertezza durò poco poiché, appena furono avvistati dal nemico, vennero investiti da rapide e violente raffiche di proiettili da 152 mm. Cercarono di nascondersi in una cortina di nebbia artificiale e di accostare sulla dritta, aumentando subito di velocità, per sottrarsi al tiro nemico, ma il tentativo riuscì soltanto al GIOBERTI e all’ORIANI, i quali poterono allontanarsi e rientrare alle basi, il primo del tutto illeso, il secondo gravemente danneggiato”.

 

In particolare l’ammiraglio Iachino elogiò “lo spirito combattivo dell’ALFIERI”, l’unico cacciatorpediniere della 1^ Divisione ad aver “reagito alla paralizzante azione di sorpresa”, impiegando le armi sebbene fosse stato subito immobilizzato dal tiro nemico, ed elogiò anche il Carducci che aveva inizialmente manovrato con l’intenzione di coprire con la sua cortina di fumo gli incrociatori che si trovavano sotto tiro. Ma, prima di passare a descrivere nel dettaglio ciò che avvenne a bordo delle singole unità sottili, accenniamo brevemente a quale fu la  manovra di disimpegno svolta dal Gioberti, dal Carducci e dall’Oriani.

 

Al momento dell’apertura del tiro delle corazzate britanniche sul Fiume e sullo Zara e poi sull’Alfieri, i tre cacciatorpediniere, imitando la manovra subito iniziata dal Capo Squadriglia, avevano accostato subito a dritta, per disimpegnarsi, in quanto essendo venuti a trovarsi un poco a ridosso delle unità maggiori della 1^ Divisione Navale, si trovarono centrate dal tiro delle unità nemiche le quali sparavano defilandosi dietro gli incrociatori nazionali e non poterono impiegare le armi per non rischiare di colpire le unità amiche che li precedevano. Secondo la ricostruzione fatta dalla Commissione Inchiesta Speciale, il Gioberti e l’Oriani, stendendo una cortina di nebbia artificiale per occultarsi al tiro nemico, accostarono subito ad un tempo prendendo rotta sud, tra i 170° e i 180°, mentre il Carducci, facendo anch’esso fumo, effettuò un’accostata più ampia. In questa fase fu colpito da una prima granata e successivamente, mentre stava  effettuando una seconda seconda accostata , per correggere in senso inverso la prima, fu colpito da una seconda granata restando immobilizzato. Gli altri due cacciatorpediniere, riuscirono invece a sottrarsi al fuoco nemico e ad allontanarsi, l’Oriani con danni non gravi essendo stato colpito da una granata, il Gioberti completamente indenne. Il cacciatorpediniere Alfieri, che trovandosi in testa alle unità della sua 9^ Squadriglia seguiva il Fiume, prima ancora che avesse avuto inizio l’azione nemica, avvistò a breve intervallo l’accendersi di due very rossi (sic) sulla sinistra e al traverso. Poco dopo seguì un’azione di fuoco diretta contro gli incrociatori, sviluppata con illuminanti e con tiro battente d’artiglieria, che determinò un grande incendio sulla poppa del Fiume, da cui si sollevarono in aria “schegge infuocate di tutte le grandezze”, come riferì il sottotenente di vascello Vito Sansonetti, figlio del Comandante della 3^ Divisione Navale. Passarono pochi secondi prima che l’Alfieri venisse colpito al centro e nel locale macchina di poppa da un proietto da 381 sparato dalla corazzata Barham, che prima di esplodere aveva attraversato un deposito di nafta. La forte perdita di vapore, sgorgante dalle tubature e sfuggendo dal boccaporto, aggiungendosi alla inutilizzazione delle trasmissioni della timoneria, impedì al comandante del cacciatorpediniere, capitano di vascello Toscano, di impartire gli ordini per mettere alla massima forza, portare il timone tutto a dritta, ed iniziare l’emissione di nebbia.

 

Nel contempo, l’interruzione dell’energia elettrica, che portava all’oscuramento dell’Alfieri, non permise di comunicare direttamente dal ponte di comando con i locali inferiori, mentre l’ordine di seguire gli indici elettrici, per aprire il fuoco con i complessi d’artiglieria da 120 m/m, coincise con il colpo ricevuto dalla Barham. Avendo constatato che la ruota del timone in plancia era in folle, e non governava più, ragion per cui l’Alfieri aveva cominciato a descrivere un cerchio sulla dritta, il comandante Toscano ordinò all’ufficiale in seconda, tenente di vascello Pietro Zancardi, di recarsi a poppa per passare al governo a mano. Nel contempo ordinò di fermare la motrice di dritta, nell’intendimento, suggerito dal Direttore di Macchina, capitano Modugno, di intercettare vapore al centro e provare poi a proseguire con la sola macchina di prora ed una caldaia in funzione. Ma, sebbene manovrando dalla stazione di poppa il timone fosse portato fino a 15° a dritta, non fu ottenuto l’effetto desiderato dal momento che l’Alfieri diminuì rapidamente il proprio abbrivio.

 

Passarono soltanto altri pochi istanti quando, proveniente da prora a dritta, fu vista la sagoma di un cacciatorpediniere tipo “H” (lo Stuart) dirigere sull’Alfieri per poi aprire il fuoco contro di esso mentre defilava di controbordo all’unità italiana e a una distanza di 300-400 metri. Il comandante Toscano ordinò di accendere il segnale di mischia e di rispondere al fuoco ; azione  a cui  però non  poté concorrere il complesso  binato  d’artiglieria  da 120 m/m sistemato a  poppa, perché avvolto  completamente  dal vapore sgorgante dal boccaporto che rese anche impossibile l’uso dell’impianto lanciasiluri poppiero. Spararono invece i due cannoni del complesso prodiero e le mitragliere da 20 m/m di dritta, mentre il sottotenente di vascello Vito Sansonetti, che aveva sentito dire al comandante Toscano “Andiamo a fondo ma combattiamo fino all’ultimo”, impiegando di propria iniziativa, e con brandeggio a mano sulla dritta, l’impianto di lancio centrale, riuscì a far partire dapprima due siluri, e poi un terzo da maggiore distanza, senza tuttavia colpire lo Stuart che defilò rapidamente di controbordo.

 

Sansonetti descrisse l’attacco del cacciatorpediniere britannico e la risposta dell’ Alfieri nel modo seguente:

 

Da circa cinque minuti il nemico aveva sospeso il fuoco su di noi; ad un tratto vidi sulla sinistra un caccia nemico venirci velocemente addosso, accostando all’ultimo momento come se non ci avesse visto altro che allora. Non feci in tempo a brandeggiargli i siluri addosso. Pochi istanti dopo il caccia appariva sulla dritta facendo fuoco con tutti e quattro i cannoni e colpendoci presso il fumaiolo, a prora, e, credo, anche nelle mie vicinanze perché sentii delle grida di dolore e fui coperto di cenere calda che non so bene cosa fosse ; per poco non fui gettato giù dai tubi di lancio dallo spostamento d’aria. Avevo appena dato l’ordine di brandeggiare i siluri sulla sinistra ; poi, visto che il caccia passava sulla dritta, ordinai di portarli il più rapidamente possibile da questo lato. La nave era alquanto sbandata sulla dritta ed il cacciatorpediniere nemico passava a non più di 200 metri, il Silurista ARUTA, destinato al brandeggio a mano, a un certo punto si abbatté esausto dicendo di essere ferito, lo aiutai lo stesso a brandeggiare e a un certo momento detti il “fuori”. Partirono i primi due siluri. Il lancio era stato fatto in tali condizioni ed a una distanza dall’avversario così breve, che non potevo sperare in un buon esito. Tuttavia avevo lanciato perché avevo la netta  convinzione  che  l’ALFIERI   sarebbe  presto  affondato. Presso  a  poco  nelle medesime condizioni lanciai il terzo siluro contro un caccia nemico piuttosto lontano. Credo che intorno a me rimanessero soltanto due o tre persone valide”.

 

Dopo il fallito lancio dei siluri, nonostante fosse stato centrato da altre salve d’artiglieria sparate dall’unità australiana, che generarono a bordo nuovi incendi e determinarono lo sbandamento dell’Alfieri sulla dritta, il cacciatorpediniere sparò con il complesso  delle  artiglierie di prora  su  un secondo  cacciatorpediniere  britannico (l’Havock) che, per pochi istanti, fu visto avanzare da prora a sinistra, per poi accostare e sparare sull’unità italiana a bruciapelo, da una distanza stimata in non più di 50 metri. Al termine di questa breve azione le condizioni dell’Alfieri, che continuava a sbandare sulla dritta, apparvero talmente preoccupanti da convincere il comandante Toscano ad ordinare l’affondamento delle pubblicazioni dell’archivio segreto. Quindi, dopo aver inneggiato “Saluto al Re, viva l’Italia, dispose per l’abbandono della nave gridando “tutti a mare”. Mentre gli uomini dell’equipaggio prendevano posto nelle zattere, l’Alfieri, ormai in fase di affondamento, fu preso a bersaglio dal cacciatorpediniere nemico che, per sparare con maggiore precisione, si fermò nei pressi dell’unità italiana. Il fuoco dell’Havock alimentò gli incendi che ardevano a bordo con violenza, e ne generò dei nuovi. Le fiamme, estendendosi rapidamente, procurarono lo scoppio delle riservette delle mitragliere, e poi, con ultima violenta esplosione, l’affondamento dell’Alfieri che scomparve dalla superficie del mare verso le ore 24.00, trascinando nell’abisso il comandante Toscano. Questi, dopo aver chiesto una sigaretta agli ufficiali che lo avevano invitato a mettersi in salvo sulla loro zattera, era rimasto a bordo della sua nave allo scopo di accertarne l’affondamento. Scomparve con essa, assieme ai molti feriti che non era stato possibile aiutare, e fu decorato alla memoria con la Medaglia d’Oro al Valor Militare."

 

Con buona pace di Cernuschi e di chi lo incoraggia a gestire la Storia ad usum Delphini.

 

Francesco Mattesini

 

Roma, 23 agosto 2015

Edited by Francesco Mattesini
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